domenica 30 dicembre 2012

Cesare Padovani. Calligrammi per un naufragio





Se dovessi dare un titolo a questa rassegna d’immagini pittoriche sulle acque del mare dipinte da Cesare Piscopo, userei un particolare calligramma: …eram-mare…, come una sorta di figura speculare, il “palìndromo”: un andirivieni ciclico che mi avvolge in quello che ero (preistorico essere marino), e poi mi abbandona sulla riva lasciandomi sempre il suo ‘qualcosa’ di mare…Sentirsi flutto, tuffarvisi dentro, essere preso fisicamente dai cavalloni, divenire natante, nuotare tra quelle spume, gli spruzzi, i vapori, cristalli perlacei, farsi portare dagli sciabordii sulle risacche, rituffarsi, risalire, naufragare, respirare, leccarsi le labbra…tutte queste percezioni fanno parte dell’incessante ciclo delle maree, ma anche dell’esistenza. Ho capito, entrando in questi dipinti, quanto abbia senso quella saggezza antica secondo cui si capisce qualcosa in quanto si ha in sé degli elementi identici di quella cosa: capisco quei flutti e quei mari perché sono e so ritornare ad essere flutto e mare e acqua e schiuma… E questo percorso è reso possibile, al di là del suo gioco speculare (eram-mare), per quel fortunato bisticcio dei sensi che ti provoca guardando intensamente la mareggiata di Cesare: con gli occhi puoi toccare quei flutti entrando negli interstizi delle pennellate, con le orecchie puoi sentire la voce di queste acque, la pelle ti si bagna e avverti l’odore della salsedine… S’instaura una reciproca simpatia, un non so che di complicità con tutte queste acquità, tanto che a un certo punto diventa facile provocare un gioco: potrebbe essere il gioco dell’eco (amare… …mare), o dello specchio (mare…eram), oppure quello del metaplasma (acqua… pietra, roccia…onda)…, perché ogni sua pennellata è un passaggio, una metamorfosi, un passo del ciclo esistenziale. Già, il “metaplasma”, lo “scambio degli elementi” materici, o dei suoni, o delle identità, o delle topografie: come se noi, ancora per gioco, portassimo le marine, le onde e tutta la gamma delle acquosità dipinte da Piscopo mentre guarda il mare, sopra uno sperone roccioso, poniamo sul Monte Titano a San Marino. Dunque, potremmo avvertire una sorta di stridore armonioso nello scambio plastico: mentre i flutti acquosi del mare di Piscopo aspirano ad impennarsi bloccandosi come onde pietrificate, l’onda tellurica, gigantesca, del Monte Titano s’innalza, roccia stupefatta, nel vuoto da milioni d’anni, sempre lì sospesa e protesa a farsi mare. Ma ora, se dovessi dare un nome alle immagini del mare dipinte da Cesare Piscopo, ora non saprei più inventarlo. Oppure lo troverei uscendo da un certo disagio e riproponendo il suo ciclo: allora potrebbe non essere più una qualche parola ma, come un gioco di specchi, un’ennesima sua marea che racconti il mare.   
                                                                                                                                                                                                                                                   Cesare Padovani - Introduzione alla mostra di Cesare Piscopo Calligrammi per un naufragio. San Marino, 2007 















mercoledì 21 novembre 2012

Rita Toscano. Sotto le silenziose nuvole un mare di pensieri...C'era una volta il mare







Molto brevemente, sull'onda delle emozioni, con la naturale comune attenzione verso il Bello, vorrei esprimere alcune impressioni scaturite da una prima lettura della raccolta di poesie di Cesare Piscopo, che questa sera viene presentata, e da una rapida visione della mostra che ho potuto dare questa mattina in anteprima. Personalmente, essendo un'amante del mare sento di dover registrare un'affinità, una contestualità naturale con l'autore, una compatibilità ambientale che semplifica l'incontro.

Un incontro agevole, perchè per quanto "discreto e tenebroso", per dirlo con le parole di Baudelaire, Cesare Piscopo si presenta: "Il mio nome è acqua di mare", dichiara, saldando questa reciprocità con il mare, ritrovando il nucleo del suo essere nel mare, nell'acqua, nella vita, nella libertà come pure nella conflittualità del rapporto tra l'uomo e la natura.
"Sempre il mare uomo libero, amerai" scrive Baudelaire che conclude con ambiguità l'ultima strofa di "L'uomo e il mare" esclamando "Lottatori eterni, implacabili fratelli!" a racchiudere le contraddizioni ineludibili della realtà. Non è facile resistere alla tentazione di immergersi nel mare magnum di parole scritte dai poeti di tutti i tempi, ripercorrere l'Odissea di Ulisse, di ricordare le suggestioni di Petrarca piuttosto che di Leopardi, Montale o Neruda, o il fascino del mondo blu della letteratura, di Melville, Hemingway o di Salgari. Il mistero del mare affascina sempre.

Il mare è un luogo dell'anima, è un viaggio dentro la propria esistenza dove gli odori, i colori e le sfumature, il silenzio e il frastuono, la solitudine e l'infinito sono in un continuum, nel movimento, in questa metamorfosi che è la conferma della nostra identità, di una vita piena, di una vita di passioni. (Vedi la mistica della metamorfosi, 2009: colore, luce, pace).

Anche se poi è tutto relativo, perchè "l'essenza di tutto è il vuoto" si lascia sfuggire il poeta. Ma al rischio di cedere, di velarsi di malinconia (vedi opere 2009) il Piscopo non cede, perchè nella pittura come nella poesia, ut pictura ut poesis, come diceva Orazio, nell'arte placa il suo spirito, con l'eloquenza muta dell'arte. Lasciatemi dire che Cesare dipinge con le parole e parla con i colori, con una "calma" che "urla e biancheggia".
Il titolo dell'antologia "Sotto le silenziose nuvole un mare di pensieri" (2009) condensa lo stile comunicativo del poeta pittore che si quieta ma non si chiude.
E se la poesia ci fa scoprire il mare da dentro, la pittura ci mostra il mare come è visto da fuori.
Nei suoi quadri il mare è quasi sempre allo stato di natura, senz'orme (v. 2007), ma le linee tra cielo e terra segnano i contatti, ancor di più la presenza femminile, come nel rosso "Mare dell'amore"; 2009.
Sotto la cappa delle nuvole silenziose, i pensieri vanno e vengono, come le onde, come anche i nostri sentimenti, come l'amore che accarezza o travolge, che può inghiottire. L'essenza rimane! Come non ritrovarci in questa dimensione profondamente umana.
C'è però una differenza: questa condizione che molti comuni mortali affligge e tormenta, nell'artista si risolve e si dissolve nell'arte. "Scompaiono il sole il cielo il mare...c'è nebbia, tanta nebbia...ma non nel mio cuore". Il poeta si affranca e si rinfranca, e coinvolge anche noi in questo anelito verso la libertà, la purezza e la luce, senza ombre.
Per concludere possiamo dire, con le parole di Italo Calvino, che se la poesia è l'arte che riesce a far entrare il mare in un bicchiere, Cesare Piscopo ci riesce pienamente.


Rita Toscano (Introduzione alla mostra "C'era una volta il mare", di Cesare Piscopo - presentazione del libro "Sotto le silenziose nuvole un mare di pensieri", di Cesare Piscopo. Museo P. Cavoti, Galatina - 2009).












sabato 26 maggio 2012

Cesare Piscopo. GIUSEPPE PISCOPO ARTISTA






Mio padre è molto dispiaciuto di non essere presente; è abituato ad uscire raramente da casa e soltanto per necessità, ma desidera ringraziare vivamente tutti gli organizzatori. In particolare: l’Università Popolare del Salento, il prof. Giancarlo Vallone, il prof. Virgilio e tutti i presenti. Quanto a me proverò in quest’occasione ad abbozzare un rapido ritratto di Giuseppe Piscopo artista. Incominciamo col dire che egli è un autodidatta – nel senso che non ha frequentato scuole d’arte o accademie, ma si è formato ed aggiornato in modo autonomo, mosso da autentica passione per l’arte. Sicuramente, le suggestioni provenienti dalle opere di alcuni artisti del panorama nazionale ed internazionale e la frequenza degli studi di altri importanti artisti salentini come: Martinez, Ferraro, Gabrieli, Mandorrino, Coronese, saranno state determinanti per la sua formazione artistica e gli ulteriori sviluppi, ma egli era ed è sempre accompagnato, direi sospinto,  da un autentico sentimento della natura. Giuseppe Piscopo ha quasi 97 anni; ha iniziato a fare arte da ragazzo, come egli stesso ha raccontato, ed ha smesso solo pochi anni fa per un lieve tremore alle mani. I temi da lui trattati, in pittura come nella scultura e nella ceramica, sono stati: la figura umana e il ritratto, soprattutto femminile; il paesaggio - in generale la campagna e la costa del Salento - gli animali e la natura morta, i temi sociali e il soggetto sacro. Da sempre e con convinzione artista figurativo, egli ha esperito quasi ogni tipo di materiale: dalla pietra al cemento, al gesso, all’argilla, al legno, alla cartapesta. Stimolato da varie iniziative non ha mai trascurato l’attività artistica, anche se talvolta isolata e nascosta. Ha partecipato alla 7 Quadriennale d’Arte di Roma e ad altre mostre di carattere nazionale. Ecco la presentazione che di lui ne fa Alfredo Ligori: “Pittore di preminente vocazione naturalista e di fine sensibilità cromatica, è nella scultura che riesce ad esprimere appieno la sua straordinaria capacità di introduzione psicologica, volta alla ricerca del più intimo segreto che si possa nascondere tra le pieghe dell’animo umano. E il frutto di questo suo indagare, scavare, mettere a nudo l’essenza più vera e profonda dell’uomo si concretizza in forme plastiche di una essenzialità e di una incisività sorprendenti. Visi spenti dalla disperazione o illuminati dall’amore, corpi esacerbati dalla sofferenza o addolciti dalla sensualità; e dietro ogni figura, dietro ogni personaggio si percepisce netta tutta la spiritualità dell’artista che con occhio ora sornione ed ironico, ora appassionato e pietoso, ora complice e intrigante, testimonia e partecipa in una altalena di sensazioni, di stati d’animo, di atteggiamenti dosati con sapiente equilibrio.”
Impossibile ricordare in pochi minuti un’attività lunghissima dove trovano spazio e tempo disegni, dipinti, sculture e ceramiche: una produzione varia e certamente rilevante, di cui vogliamo ripercorrere molto velocemente ed in successione cronologica le tappe più significative, almeno per quanto riguarda la scultura. Partendo dagli anni ’50, si nota un richiamo alla cultura arcaica, in cui viene dato maggior risalto alla verticalità ed alla immobilità delle figure; si passa, negli anni ‘60, ad un realismo quasi classicheggiante, tendente ad un equilibrato rapporto tra forma ed espressione. Nel ventennio successivo, fino agli anni ’80, fa la sua comparsa una nuova fase strutturale, improntata su un giocoso e surreale assemblaggio di materiale povero. Si arriva infine agli anni ’90, cioè alla produzione più recente, caratterizzata da un certo espressionismo in cui la materia stessa, modellata a grumi e quasi informe, si fa allusiva di una sofferta condizione umana. Ma, tralasciamo volutamente molte opere di notevole levatura, come una lunga serie di maternità in terracotta, la cui plastica esuberanza delle forme evoca le famose Veneri di Parabita, e soffermiamoci brevemente sulla produzione che, secondo alcuni critici, rappresenta l’apice dell’attività scultorea di Giuseppe Piscopo: quella lignea del periodo 1970/1980. In questa esperienza estetica convergente in un realismo simbolico ed essenziale sono riuniti alcuni aspetti fondamentali della sua ricca personalità: dal cultore dell’arte antica al collezionista, dal conoscitore dell’anatomia umana e animale al colto pittore e scultore naturalista. A tal proposito, Giancarlo Vallone scrive in Giuseppe Piscopo, sculture tra realtà e simbolo, Carra 1996: “Nuova e diversa, profondamente, è l’esperienza “costruttivista”, datata dal 1969 al 1980. Le molte statue lignee, tutte a grandezza naturale o poco più, affiorano da pezzi di telaio, residui di mobili e scarti di rigattiere e il potere figurativo evocato è giocato interamente sul filo della fantasia. Fantasia di scultore, certo, ma anche cromatica, perché i legni antichi di telaio sono in olivo, che nel tempo acquista un tono verde scuro o azzurrognolo, ritoccato sapientemente a modulare i volumi. Alcuni temi sono ricorrenti: gli amanti, “Madre e figlia”, “Padre e figlio”, “Il chitarrista”. Le sagome sono tutte enfatizzate in altezza: e questo svela il fondo “poietico”, per dir così, di questo Piscopo, perché è nella scelta dell’altezza, come già ho detto, che si dimensiona la sua ironia. Sottile questa, giocata sul fondo dell’anatomia, con costante manifestazione sessuata, con voluta caratterizzazione dei volti. Ma è soprattutto in tre statue, che l’ironia e una certa maggior ispirazione descrittiva si saldano in esiti più che felici d’assemblage. Il Guerriero, di lungo torso e intensa frammentazione cromatica, quasi rievoca antichi precedenti italici. Il Ciclista, realizzato con pochissimi mezzi, esprime suggestivamente un’eccezionale carica dinamica. Infine il Don Chisciotte, del 1975, che coglie nella figura dell’”eroe” quasi abbandonata sul cavallo, l’essenza della sua matrice picaresca; mentre la criniera dell’animale, ottenuta con una rastrelliera di telaio, ischeletrisce l’insieme e lo consegna al suo destino di fame e di sventura: è un pezzo, come già scrissi, e ripeto, che dovrebbe iscriversi, a mio avviso, nella storia della fortuna figurativa del Chisciotte”.
Concludo citando un testo autobiografico di Giuseppe Piscopo, scritto nel 1996:
“Queste brevi note non vogliono assolutamente proporre un’autocelebrazione. Neppure desidero avventurarmi in dotte dissertazioni o personali riflessioni sul significato e sul valore dell’arte, non essendo né un critico né un letterato, ma soltanto uno “sperimentatore” che passo dopo passo, tentativo dopo tentativo, è pervenuto ad una personale e, credo, originale concezione del “fare” artistico. Il mio scopo è soprattutto quello di far conoscere ali’osservatore più attento quali sono gli stati d’animo, i sentimenti, le emozioni che tento di trasfondere nelle mie “creature” e quali i messaggi che affido loro. Perché ogni mia opera nasce da un prorompente, insopprimibile bisogno interiore di dare forma a un’idea, ad una sensazione. Tant’è che non sempre le mie mani si muovono obbedendo ad un ben definito ed organizzato piano di lavoro; spesso le sento agire come appartenessero ad un’altra entità, ad un altro “io” che vive ed opera all’interno di me stesso, in sintonia con le forme possibili riposte nella materia. Spesso anzi è l’ispirazione del momento a suggerirmi il soggetto da rappresentare, e ad imporre la materia da adoperare, che può essere il tufo, il cemento, la carta, la tela, il legno e le più disparate cianfrusaglie da rigattiere. Fra tutte però, l’argilla resta per me la materia preferita. Forse perché nel mio inconscio evoca ancestrali suggestioni legate all’evento della creazione, o perché tale materiale si piega docilmente alle mie estrose fantasie, o perché nel lavorarlo provo una sensazione di voluttuosa sensualità, o chissà per quali altre ragioni. Tuttavia, secondo me, per dar vita ad un’opera d’arte non basta avere un’idea e padroneggiare la tecnica, che pure è essenziale; ci vuole dell’altro. Ci vuole l’anima, e per anima intendo la naturale disposizione a percepire e interpretare il mondo esterno attraverso il filtro della propria cultura, della propria sensibilità, del proprio vissuto. E non ho dubbi: in tutto quello che creo c’è un po’ della mia formazione umanistica, un po’ della mia vocazione naturalistica, un po’ delle mie esperienze speleologiche e archeologiche, molto delle vicende personali che hanno scandito e segnato la mia esistenza. Essendo la scultura il mezzo espressivo che prediligo, è ad essa che riservo le maggiori attenzioni, anche se la pittura mi dà un senso di serenità, acquieta, ed anzi distende quel furore creativo che invece mi assale quando mi accingo a modellare. Per me la scultura è tensione emotiva, ansia, inquietudine, mentre la pittura è rassicurante tranquillità, sereno abbandono, idilliaca simbiosi con il mondo della natura – paesaggi, fiori, nature morte e figure umane. A volte mi chiedo se esista una qualche corrente artistica alla quale io possa essere assimilato. E mi rispondo: a tutte e a nessuna. Io non ho seguito, né mai seguirò alcuna ideologia; amo l’arte per l’arte. Se proprio dovessi darmi un’etichetta, mi definirei un “figurativo barocco”. Figurativo perché è costante in me il riferimento alle forme della realtà esterna. Barocco perché anch’io mi riconosco in un certo qual modo in quel movimento, che  vide fra Cinque e Seicento moltissimi artisti praticare vie nuove e dare libero sfogo all’estro e alla fantasia. Pertanto, se per barocco s’intende soggettivismo dell’espressione, ritorno alla natura come unica fonte d’ispirazione, introspezione psicologica alla scoperta dell’animo umano, ebbene sì, io mi sento barocco fin nel profondo di me stesso. E poi, come non sentirsi barocco in una terra in cui ogni pietra, dalle chiese ai palazzi, è una palpitante testimonianza di quell’arte? Il barocco è intorno a te e inevitabilmente finisce per entrarti nelle vene. Quanto ai temi trattati, in special modo nella scultura, il motivo ricorrente è la figura umana; la donna in particolare, perché in lei si può cogliere il significato più profondo e autentico, l’essenza stessa della vita. La donna quindi; la donna biologica, la donna fattrice – i tratti anatomici volutamente esagerati di molte mie figure femminili evocano ed esaltano il concetto di fecondità. Tuttavia non è soltanto l’universo femminile ad occupare i miei pensieri; mi appassionano anche altri temi, come il dramma della guerra e il flagello della fame nel mondo, con tutte le conseguenze di crudeltà e di degradazione che umiliano la dignità dell’essere umano, fino alla sua totale negazione. In ogni caso, quali che siano i miei soggetti: donne, vecchi o bambini, il messaggio che cerco di comunicare è sempre un messaggio di speranza nell’intelligenza dell’uomo, nella sua capacità di riscattarsi dal male e di godere a pieno dei pochi momenti di felicità che la vita gli offre. Per me felicità è dare l’ultimo ritocco ad un dipinto o ad una scultura e sentirmi rasserenato, appagato. Purtroppo è solo un attimo perché, subito dopo, incominciano i dubbi, le incertezze, gli interrogativi. In questo intimo travaglio, in questo continuo bisogno di mettermi in discussione, c’è già il germe della prossima opera che, nelle intenzioni, dovrà essere la più riuscita di tutte. Ma so già che non sarà così perché penserò ad un’altra opera e ad un’altra ancora, in una continua , affannosa e purtroppo vana ricerca della perfezione”.

Cesare Piscopo (in occasione di “Omaggio a Giuseppe Piscopo” 25/05/2012 – Università Popolare del Salento; sede di Galatina).




lunedì 12 marzo 2012

Mario De Marco. L'inquietudine esistenziale nella pittura di Cesare Piscopo




La produzione pittorica di Cesare Piscopo annovera oltre un trentennio di attività sempre animata dal demone della ricerca che se pur si è inscritta e si inscrive nell'ambito di alcune espressioni artistiche, sicuramente "moderne", appare connotata da un coerente spirito anticonvenzionalistico. Il retroterra del pittore di Parabita è documentato dalle autorevoli annotazioni critiche di Aldo e Giancarlo Vallone, di Massimo Guastella e di Marina Pizzarelli, la quale più degli altri ha seguito l'iter del nostro artista.
Le più recenti carte inchiostrate del nostro autore (acquarelli e guazzi) hanno sviluppato senza soluzione di continuità la ricerca di cui accennavo innanzi, una ricerca, è bene premetterlo, che scarnifica le stratificazioni del proprio vissuto, quell'esperienza interna, insomma, che filtra ed elabora la realtà, ossia i dati oggettivi e quindi, esterni. da qui emerge l'individuale visione del mondo di Cesare Piscopo, un artista inquieto, tormentato, sicuramente pessimista.
Coloro che precedentemente lo hanno recensito sono stati pressocchè unanimi nel sottolineare la condivisione, da parte del Nostro, di certi spunti del pensiero esistenziale del lontano Oriente, e ciò per alcuni aspetti mi induce a fare qualche accostamento al pensiero di Schopenhauer, a quel Weltschmerz (dolore cosmico) che incombe su tutto e su tutti, a quel nostro essere ostaggi del samsara (apparenza ingannevole), di cui potremo liberarci anche con la creatività artistica onde conseguire, finalmente, il nirvana,ossia lo stato di essere in cui vi è la cessazione del dolore.
Considerando ancora sulla struttura psicologica di Cesare, mi sorge un altro accostamento, quello sul concetto di angoscia espresso da Kierkegaard, e le citazioni potrebbero ancora continuare per significare quella forte carica emotiva che si coglie nelle composizioni del Nostro, dove la desolazione e la solitudine appaiono emergere in maniera inquietante.
L'opera dell'artista di Parabita è di marca espressionistica, e non potrebbe essere altrimenti, ed essa si popola di immagini riconducibili ad una espressività primitivistica; ad archetipi scaturenti tuttavia non dal già visto, ma via via materializzatisi alla stregua di fantasmi o di ectoplasmi durante il travaglio onirico e in una sorta di trance che Cesare vive in maniera semicosciente per quel tanto che gli basta per assecondarsi e per guidare il pennello sulla carta. 
Per interpretare le rappresentazioni del nostro autore occorre procedere, come si suol dire, dentro e dietro il quadro. Non basta l'impressione momentanea che si riesce a cogliere, occorre, invece, decifrare il significato simbolico dei colori, dei toni scuri, forti e marcati, che inequivocabilmente denunciano quanto Sigmund Freud condensò nell'espressione: "elaborazione del lutto".
Come già accennavo, un forte dinamismo contraddistingue le carte inchiostrate di Cesare, il quale riesce a realizzare una originale dialettica tra colore e forme per esaltare l'energia potenziale e in atto degli ectoplasmi, che si muovono in spazi irreali e al di là di qualsiasi temporalità. Anche se la gamma cromatica e le figure deformate delle composizioni di Cesare sembrano raggelarsi e raggelare, contengono tuttavia un dinamismo energetico che sprizza oltre la definizione delle forme-colore, essendo quest'ultime anch'esse grumi cromatici che non si lasciano costringere dalle delimitazioni del segno.
In conclusione si può affermare che il nostro autore dipingendo trascrive la propria visione del mondo e della vita ed in questo assecondarsi, che a tratti sembra evocare le esperienze della telescrittura, compie un'incessante operazione catartica della quale fruisce pure lo spettatore che, con il pittore, partecipa empaticamente all'iter creativo.
Ho parlato di catarsi perchè, tutto sommato, se pur si coglie tanta angoscia nell'animo di Cesare Piscopo manca, per fortuna, lo stato di essere della disperazione, e ciò me lo fanno intuire gli scarsi spazi aurorali che, nonostante tutto, costituiscono un tenue ma tenace filo di speranza per un diverso rapporto con il mondo, ossia con se stessi e con gli altri.



Mario De Marco (Lecce, 1998)









martedì 28 febbraio 2012

Antonietta Fulvio. Cesare Piscopo e le corrispondenze tra colore e parola






Immagini sospese tra l'azzurro del cielo e gli abissi del mare - echi lontani di poesia si infrangono come onde e segrete corrispondenze nascono tra colore e parola. Sono dipinti, quelli di Cesare Piscopo, che raccontano il rapporto intimistico dell'uomo con il mare. Un rapporto universale ed eterno come il verso della Poesia che a volte nasce dall'osservazione del moto delle onde: la metrica allora è il tentativo di ripercorrerne il ritmo, di inseguire la risacca struggente come il pensiero che ritorna ciclico su se stesso, sui ricordi. Come nei fondali silenziosi, dove finisce la luce ma scrigno di inimmaginabili tesori, il poeta ricerca la sua verità, il senso dell'esistenza e l'armonia del cosmo. Non è dopotutto il mare - il liquido amniotico - che troviamo fuori dal grembo materno nel mondo? Un mondo dominato dalla forza della natura come dalla forza dei sentimenti imprevedibili, ma essenza della vita stessa: Ti amo fino al punto/ di scambiare i tuoi silenzi/ per messaggi d'amore, scrive il poeta-artista e non è un caso che guardando le sue tele ci si immerga nello spazio-colore immaginando il silenzio interrotto solo dai battiti del cuore, dal respiro o dal vento o dal fragore delle onde - e il rimando al mare è inequivocabile. Indispensabile, forse.
Come lo stagno di Giverny per Monet o la tempesta per Turner.
La pennellata di Cesare è fluida e leggera anche quando gli accostamenti tonali diventano marcati e i contrasti cromatici, ora intensi ora al limite dell'etereo, interpretano stati d'animo mutevoli come i colori del mare. Quel mare che ha la luce del Salento ma potrebbe essere l'Oceano... Il mare, luogo magico dove affidare pensieri racchiusi nel vetro di una bottiglia, lasciati in balia del destino. Quel mare che è depositario di niente o di verità nascoste ma che è onnipresente, interlocatore o spettatore, nelle tele come nelle liriche di Cesare Piscopo: ogni dipinto è una poesia sussurrata, ogni poesia è un dipinto dove perdere lo sguardo e ritrovare la propria anima. Così come la voglia di vivere e il desiderio di amore suggellato in una promessa: Ti porterò al mare/ di notte/ Osserveremo onde silenziose/ Poserò le mie mani/ sui tuoi fianchi/ sfiorerò i tuoi capelli/ leggeri/ Saremo acqua e roccia e/ nuvole sovrapposte/ Poi guardando nulla/ penseremo a nulla/ e d'amore ci ubriacheremo.


Antonietta Fulvio (introduzione alla mostra di Cesare Piscopo: Messaggi dal mare; Beauty and Book Salon - Lecce 2007)


















martedì 14 febbraio 2012

Mario De Marco. Introduzione alla pittura di Cesare Piscopo





La produzione pittorica di Cesare Piscopo annovera oltre un trentennio di attività sempre animata dal demone della ricerca che, se pur si è inscritta e si inscrive nell’ambito di alcune espressioni artistiche “moderne”, appare sicuramente connotata da un coerente spirito anticonvenzionalistico. Il retroterra del pittore di Parabita è documentato dalle autorevoli annotazioni critiche di Aldo e Giancarlo Vallone, di Massimo Guastella e di Marina Pizzarelli, la quale più degli altri ha seguito l’iter del nostro artista.
Le più recenti carte inchiostrate del nostro autore (acquerelli e guazzi) hanno sviluppato senza soluzione di continuità la ricerca di cui accennavo innanzi, una ricerca, è bene premetterlo, che scarnifica le stratificazioni del proprio vissuto, quell’esperienza interna, insomma, che filtra ed elabora la realtà, ossia i dati oggettivi e, quindi, esterni. Da qui emerge l’individuale visione del mondo di Cesare Piscopo, un artista inquieto, tormentato, sicuramente pessimista.
Coloro che precedentemente lo hanno recensito sono stati pressocchè unanimi nel sottolineare la condivisione, da parte del Nostro, di certi spunti del pensiero esistenziale del lontano Oriente, e ciò per alcuni aspetti mi induce a fare qualche accostamento al pensiero di Schopenhauer, a quel Weltschmerz (dolore cosmico) che incombe su tutto e su tutti, a quel nostro essere ostaggi del samsara (apparenza ingannevole), di cui potremo liberarci anche con la creatività artistica onde conseguire, finalmente, il nirvana, ossia lo stato di essere in cui vi è la cessazione del dolore.

Mario De Marco. Introduzione alla mostra di pittura di Cesare Piscopo - Raggio Verde – Lecce, 1998.








martedì 7 febbraio 2012

Maria Rosaria Pascali. L'urlo e il sogno di Cesare Piscopo





Non sono un critico “laureato”. L’urlo e il sogno di Cesare Piscopo non potrò sistemarli con una delle tante e paludate cattedratiche filosofie dell’estetica che rinchiudono in nicchie precostituite l’opera pittorica, il verso, il canto. Ho solo un cuore che sente. E avverte con animo turbato e commosso. Questo forse basta per Piscopo. Perché l’analisi consueta gli darebbe solo etichette che lo attaccherebbero ad un chiodo come si fa con una farfalla da collezione. Lui cerca altro. Un cuore appunto a cui far sentire quella vibrazione assordante che lo tormenta. Egli è l’uomo che tenta, nonostante l’apparente fragilità dell’esistenza, l’antropomorfo che anela a diventare angelica farfalla, il “faber” che costruisce dalle macerie della condizione umana.
E’ vero. Non c’è pace nell’arte di Cesare Piscopo. C’è invece la febbrile, urgente ricerca di una identificazione dell’anima, l’eterna domanda sull’essere, un rapporto, a volte ironico e grottesco, a volte inquietante ed esasperato, di amore – odio verso tutto ciò che è corpo, quindi materia che imprigiona, che rende mortali. Eppure la bravura di questo “difficile” artista sta nel riuscire a trasmettere emozioni comunque positive. Comunque. Nonostante la rappresentazione di figure distorte, di immagini trasfigurate, di paesaggi disperati. Non c’è opera di Piscopo che non lasci uno spiraglio di luce, e la sua ricerca, in fondo, trova in se stessa una risposta al travaglio interiore dell’artista e quindi, più in generale, dell’uomo: una meravigliosa unità dell’immagine creativa, il raggiungimento della perfezione assoluta nell’imperfezione relativa. In questa dimensione le forme non hanno più importanza se non per tracciare una linea, immaginaria, della diversità – unità dell’universo. Ecco allora che nei suoi paesaggi gli alberi diventano corpi (annullati spazio e tempo), i rami braccia protese verso uno sfondo che altro non è (e lo disvelano i colori) che la continuazione dell’opera creativa che si è fatta materia. Quella materia che Cesare Piscopo “imprigiona”, immaginando volti e figure, nelle sue ricorrenti bordature nere ma che nei paesaggi di colpo si scioglie, scivola verso l’orizzonte, liberata finalmente da ogni tipo di vincoli.
Se la continuità tra volti, figure e paesaggi corre sul filo di un unico, travagliato, percorso interiore, teso alla ricerca della pura presenza, questo non significa aver esaurito l’esplorazione pittorica dell’universo dell’artista. Altre zone d’ombra vanno messe a fuoco per comprendere appieno l’arte di Cesare. E sono proprio i paesaggi a fornirci un’altra, violenta, chiave di lettura. E chi ritiene che Piscopo privilegi a questo tema quello sulla condizione umana dovrà ricredersi. La sua produzione più recente è composta da decine e decine di scorci salentini. “Non ho mai abbandonato questo tema”, ammette lo stesso Piscopo, “anzi in esso mi sono sempre rifugiato quando la ricerca e la sperimentazione sulla condizione umana diventavano troppo drammatiche, sfibranti”. Già. E’ nella raffigurazione – questa volta reale – dell’ambiente che Piscopo ritrova finalmente un po’ di serenità: ”Lascio sempre uno spiraglio di luce nei miei paesaggi, anche in quelli più cupi”, spiega egli stesso che ammette di amare questo soggetto “forse anche più dei volti e delle figure”.
Proprio nei paesaggi emerge l’ ”altro” Piscopo. E neanche questa volta vi si può ritrovare l’uomo mite, semplice e schivo quale appare agli occhi di chi abbia un approccio con la sua persona. Questo Piscopo è tutta un’altra cosa: argento vivo, ribelle, guerriero. Nel suo acceso meridionalismo, descrive un Salento che non vuole rassegnarsi al suo destino di dominato, che non vuole e non sarà mai addomesticato. Al tempo stesso, descrive il suo stato d’animo. Di artista che sa di vivere isolato in una provincia sorda, impenetrabile, che sa che qui vivrà da emarginato, incompreso, che la sua terra gli sarà (forse) sempre matrigna. E nonostante questo decide di non arrendersi, di non appiattirsi, soprattutto, di restare. Cesare allora diventa “il ribelle”, ai suoi acquerelli si sostituiscono gli oli, i colori si fanno più intensi, violenti, la materia vibrante, il pennello diventa spada che ferisce, smuove, agita gli eventi. Il guerriero si è svegliato, le pietre sono diventate punti fermi, calamite che impediscono ogni fuga, il mare tempestoso, l’orizzonte rosso fuoco. E’ una lotta all’ultimo sangue fra gli elementi. Poi il turbine comincia a placarsi, sullo sfondo una luce gialla che indica che la tempesta sta per cessare. Per un attimo ovviamente. Perché la natura, e con essa l’animo umano, non può far sosta. Ma il prodigio tornerà a compiersi. Piscopo griderà ancora il suo dolore e dopo una nuova lotta tornerà e rischiararsi dentro. Misteriosamente. “In assenza di parole, mi guardo intorno / Solo dolore. Ma poi: “Sottili fantasmi di fumo / Alberi bagnati di terra /Una luce argentea / serena avvolgente / ci illumina dentro”, dice egli stesso in due sue poesie tratte dal volumetto “Fili d’erba”. L’essenza, forse, è tutta qui.
Perciò non chiedetemi di dare un nome al sogno di Cesare Piscopo, non ne ha bisogno. I suoi segni invocano l’esistenza che fa pensare al Giobbe luetico, impaziente sotto l’ulcerazione dolorosa dell’umana follia che gli grava le spalle. O evocano l’invito del fratello che disse all’altro fratello: “Andiamo ai campi”. Cioè la tragedia che stordisce o annienta, o da cui si esce con eroica tristezza per costruire ciò che altri hanno distrutto. Legato in una caverna, condannato a vedere solo ombre sulla parete, ha rotto i ceppi ed ha guardato la luce. Poi l’ha rubata a dio e riverberata sulla sua tela per darla agli uomini. E non è morto.

Maria Rosaria Pascali (1999)











Giancarlo Vallone. L'esperienza grafica di Cesare Piscopo





Ho esaminato con estremo interesse la nuova esperienza grafica di Cesare Piscopo, affidata ad una serie di carte inchiostrate da multiformi gradazioni di colore che si espandono senza disegno preordinato. La casualità della espansione degli inchiostri è però bloccata o pilotata fino al raggiungimento di una forma significante, e dunque di una cifra della realtà essenzialmente psichica, capace forse di ambientarsi logicamente, cioè nell’interpretazione, agli ideogrammi orientali o ad ancestrali pittogrammi, ma senza, mi pare, vera vocazione simbolica; di forza insomma, quasi esclusivamente individuale, ma temperata, almeno spesso, da una canalizzazione (prescelta, precostituita) dall’uso di tonalità di colore delicate e degradanti. Questo lirismo di Piscopo ha dunque, come sempre, funzione educativa; presiede, allevia, medica il conflitto delle pulsioni. Indica, inoltre, più in profondità, la nuova grafica di Piscopo e il rifiuto, così evidente, del figurativo (già imminente in alcune descrizioni della costa salentina e nelle figure umane): è, mi pare, nell’individuazione del colore che viene risolto, almeno in questa fase di ricerca, il problema, dirò così, dell’essere della forma. Il colore diviene una specie di sonda “ontica” (evito di dire “ontologica”) in modo certo più audace, benché non isolato, di quanti seguono la STESSA VIA poggiando più comodamente su una progressiva rarefazione del figurativo. Viene meno la connessione classica in pittura tra forma, oggetto e colore.
Finchè la forma fu legata all’oggetto, al reale, finchè fu “vera”, le ragioni del colore erano del tutto iscritte in tale relazione di identità. Fu poi proprio al colore e alle ricerche su di esso che spettò il compito di segnare le “scansioni” del “moderno” e la progressiva perdita di valore, nella forma, dell’oggetto, lungo appunto le variazioni della cifra colorica. Ora sembra, e non solo in Piscopo, che spetti al colore di assorbire nel suo apparire grafico ogni capacità genetica dell’essere formale; cioè delle forme in quanto capaci e matrici d’essere. Questa sorta di neotomismo d’avanguardia (“forma est quae dat esse rei”) non cade, con Piscopo, nel puramente casuale (che non significa non figurativo) né nel puramente informale: concetto questo che nel porre il problema della sua esistenza anche solo visiva, non ha d’altra parte mai significato assenza di forme. Piuttosto ha indicato la questione (sostanzialmente linguistica) della forma delle non forme (veristiche) o, semplicemente, della forma delle forme (grafiche). L’esperienza di Piscopo, tuttavia, non sembra ancora pienamente strutturale o linguistica; non pare dotata di semantica veramente autonoma o interna. La sua ricerca è, ancora, una domanda sull’essere; è, forse, una nostalgia dell’essere esplosa oltre il figurativo, e nella sua mancanza.

Giancarlo Vallone  (1995)





lunedì 6 febbraio 2012

Giancarlo Vallone. La figura umana nella pittura di Cesare Piscopo






Già alla fine del 1995 scrissi su Cesare Piscopo un’impressione legata, quasi esclusivamente, agli inchiostri su carta che mi sembravano ispirati, dirò così, all’apparentemente informale. In realtà un giudizio sulla pittura di Piscopo è possibile solo attraverso la scoperta del suo modo intellettuale di essere pittore. La visita del suo studio consente un’attendibile valutazione del rapporto tra massa sterminata di lavori preparatori e opera finita. Consente, soprattutto, di mettere a fuoco il fondo fervente della sua vocazione pittorica e l’importanza, centrale nella sua formazione, dell’espressionismo in specie tedesco, suggellata, quasi simbolicamente, dal suo incontro giovanile con Kokoschka, al quale Piscopo ha recentemente dedicato un “omaggio”, nell’aprile del ’98, in Casarano. Sopravvissuti alle volontarie eliminazioni, e quasi celati tra schizzi, inchiostri, bozze, libri, appunti di lavoro, emergono alcuni paesaggi degli anni Settanta, già non riproduttivi, ma anzitutto intesi quali prove del tratto o controllo del segno e dell’esattezza disegnativa, e che, non a caso, tendono a dissolversi per una più essenziale rappresentazione. E’ questo il filo che orienta il ventennio seguente di ricerca pura, di preparazione continua ad un universo evidentemente espressionista. In un appunto della fine degli anni Ottanta, Piscopo riflette: “volti e personaggi appaiono, a chi sa osservare, in dissolvenze di linee e di macchie non programmate, e disposte senza un ordine apparente”. I materiali erano allora, e sono oggi, penna, matita colorata, inchiostri, tempere, colori ad olio, acrilici, soprattutto acquarello perché, evidentemente, Piscopo ha bisogno di segno rapido per fissare l’immagine. Questo rivela che non è l’oggetto, qualunque sia, a definire la sua pittura, ma il modo e il momento del suo essere colto dal soggetto. E’ la presenza del soggetto ad affermarsi nel dipingere, e, come in ogni espressionismo, l’affermazione è forte: è il soggetto a decidere il senso dell’incontro e l’essenza della cosa. Dal 1989 al 1992, la sperimentazione raggiunge alcuni punti intensi di maturazione. Una ricca quantità di disegni a matita colorata e a penna, credo sconosciuti, sviluppa labirinti  e intrichi; ma nel grumo dei segni (linee e colori) s’intravede un volto, certo trasfigurato, nemmeno caratterizzato; ma presente. E’ soltanto un inconscio rifiuto del puro astrattismo, un’adesione istintiva e residuale al figurativo, o anche una domanda sull’essere? Lo stesso dubbio ci offrono i (più rari) esperimenti di collage (del ’90) che evocano nell’insieme immagini grottesche, cioè appunto un umano trasfigurato, senza che sia facile, anche qui, cogliere il senso di questa pittura i cui lemmi affondano sempre nell’espressionismo, ma con evidente valenza astratta. E’ Piscopo stesso a svelarci qualcosa; egli dice ancora: “il brutto (anatomico), l’orrido, il grottesco, sembrano essere il risultato di un tentativo di ricerca analitica condotta con gli strumenti pittorici, all’interno del mio io”.
Qui c’è anche l’esigenza psichica di capire il movente della propria pittura, del proprio presentare l’oggetto in un certo modo. Lo scavo dell’io e la scelta espressionistica sono vie convergenti anzitutto nella ricerca di un senso per la vita, che intanto rivela  inquietudine e dubbio, quantità di studio e passione sperimentale. Direi che alcuni disegni a matita del 1992 provano la radicalità del dubbio ontologico di Piscopo, e già nella differenza delle tecniche. Profondi interventi di gomma cancellano il tratto delle figure, le riducono all’essenza figurativa (come una “radiografia dell’umano”, afferma l’autore) e tentano di portare alla luce lo scavo interiore. Poi un unico tratto nero deciso, largo, a pennello, borda dall’esterno la figura, come se intendesse fermare l’immagine, affermare la presenza d’un interno, dividerlo dal fondo. La necessità di questo punto fermo, per quanto discusso e laborioso, a me sembra centrale per capire l’impegno di Piscopo, pur nella congerie delle sperimentazioni. Nella produzione del 1994 non mancano approcci al surrealismo, forse a quello fabuloso di Mirò, ma già nell’uso del colore, istintivo ma non mai casuale, riemerge la vena figurativa, graduata in un tracciato ammiccante dal complesso dei segni; fino alla formalizzazione estrema, nella quale la figura è data da rigidi segni neri: austere affermazioni di presenze pure, indistinte, senza carattere alcuno. Siamo all’ermetismo puro, e cronologicamente siamo alle soglie del 1995, quando in alcune mostre personali, accolte con giudizi vari editi in “Apeiron”, Cesare Piscopo affronta decisamente questa sorda provincia salentina con una serie di inchiostri su carta che rompono, a me sembra, la sua produzione espressionista. Non confonderei in una generica idea di sviluppo l’ermetismo figurale del ’94 e l’estrema rarefazione del segno, esclusivamente colorico, di questi inchiostri. Io vi notai, l’ho detto, solo un apparente approdo informale e, piuttosto, una ‘nostalgia dell’essere esplosa oltre il figurativo’. L’immagine più felice è quella di ‘forme organiche’, di Marina Pizzarelli, che estende un titolo scelto da Piscopo stesso. Si trattava, infatti, di una domanda sulla possibile essenza elementare dell’esistente, e non solo umano, come svela una citazione di Aime Cesaire. Questa cesura nel modo pittorico, una tendenziale rottura nell’espressionismo, mi sembra dovuta anzitutto alla radice ‘ontologica’ della pittura in Piscopo: il suo isolamento provinciale pone in discussione la possibilità stessa di fondare la comunicazione; e nasce (pittoricamente) la ricerca sul gene comune dell’esistente e della vita, e della partecipazione. E’ dunque una ricerca per la vita: che l’arte abbia risposto o no; che la forza morale di Piscopo sia esaltata dal successo di questa esperienza, o piuttosto dal suo fallimento, egli è tornato presto all’espressionismo, e figurale, con la volontà (tipicamente espressionista) di legare l’essenza degli oggetti alla propria pittura, e forse di educare all’arte. Già nel 1966 tenuissimi sintomi anatomici affidati ad acquerelli rosa incarnano, quasi, la figura nelle costruzioni ‘organiche’ pensate l’anno precedente. Questo superamento della fase ‘organica’ a me pare piuttosto un abbandono della ricerca sul gene comune dell’esistente. Il ritorno all’espressionismo, ch’è già cosa fatta nel ’96, esprime, io credo, la raggiunta consapevolezza che l’appartenere dell’esistente a comuni radici biologiche non risolve, e forse drammatizza, la questione morale della partecipazione. L’incomunicabilità, l’incomprensione, la solitudine, forse ora sembrano, a Piscopo, connotati sostanziali dell’esistenza morale. La bordatura nera che, nel 1995, divideva le figure dal fondo, ora le ingloba, diventa un unico, denso fondo nero. In quasi tutti i nuovi acquerelli del 1996, la figura, o la serie di figure, occupano una spazio dominato dal fondo. Vale ad esprimere l’unicità dell’esistenza, o anche la sua diversità, irrilevante in relazione all’assoluto? Mario De Marco ha notato questo orientamento esistenziale dell’espressionismo di Cesare Piscopo. Un acquerello dello stesso anno propone una figura non solo manifestata sul fondo, ma schiacciata da esso, ed è intitolata ‘Angoscia’. E’ forse una citazione dalle celebri xilografie (esposte a Firenze nel 1964) di Munch che è, tra i padri dell’espressionismo, il più sensibile al tema dell’esistenza, ed un contemporaneo di Heidegger. Tuttavia questa produzione di Piscopo, solo in parte  nota, e cioè nota in quella parte esposta a Maglie nel 1997, ha valori diversi di esistenza, e citazioni più sottili da cogliere. Un quadro, ”Cellule”, ripropone il tema “organico”, ma calato definitivamente nell’umano: solo volti tondi, che si affrontano circolarmente sugli immutabili toni neri del fondo: monadi irripetibili e indistinte (cioè uguali) nel loro essere gettate nel mondo. Poi, però, il tratto dei volti si irrigidisce, si drammatizza, riprende l’antica sagoma grottesca; diviene “Maschere”: tre volti definiti, nel loro emergere titanico dal nero, quasi esclusivamente dal contorno spigoloso, esaltato, negli interni, di giallo e di rosso, con effetti di grande tensione. Ora le maschere, come in Ensor (cioè nell’idea di Ensor) sono metafora di fungibilità, sostituiscono ogni possibile tipologia di volto, in ragione di un comune destino: lo spegnersi nel nero. Grottesca o maschera, essa vale come archetipo, o simbolo; come cifra d’ogni esistenza che placa il dramma dell’incomunicabilità nella coscienza della profonda eguaglianza che accomuna le diversità. Non è l’unico messaggio. I “Volti”, sempre del 1996 (ora in collezione privata), sono assai più caratterizzati; sono forse un uomo e una donna, come in un celebre acquerello di Nolde, e con le stese tonalità di Nolde: potentemente espressivi, l’uno scompare guardando l’altro per forza ipnotica non della forma, ma del colore differenziale. Uomo e donna qui (e spesso in Piscopo) tendono, sul fondo nero del nulla, l’unico ponte tra individui, fatto di istinti, o di amore. In una sua poesia di “Fili d’erba”, il pittore dice alla donna: “immenso grigio ci divide / e poche foglie bagnate di rosso / come segnali appesi”.     
                                                                                       

Sono temi che Cesare Piscopo articola anche con una lunga fedeltà ai materiali. Egli, spesso, usa mescolare i colori all’acquerello con il bianco coprente o il nero di china. Così, se da un lato il colore cede un poco della sua trasparenza, dall’altro acquista in tensione e in contrasto, caricandosi di densità emotiva. Meno frequente è l’uso dei colori ad olio o degli acrilici; eppure, quando li adopera, il dominio dell’ispirazione è totale. L’idea centrale, il destino comune, l’heideggeriano essere per la morte, è reso in “Disfacimento” (un acquerello esposto a Casarano nel 1998) con una penetrazione del fondo nelle costole degli umani e, forse più discorsivamente, in “Danza macabra”, ma è imprudente farsi suggestionare dai titoli che sono, per definizione, pretestuosi. C’è molta maturità in questa pittura; anche il graduale abbandono dei fondi neri prova il saldo sviluppo della poetica di Piscopo e l’aggressività di una raggiunta convinzione, che vuole imporsi con tutto il suo mondo. Come in ogni autentico espressionismo, la volontà, l’io, è dato nel colore. Anzi la forma, specie se figurale, è pretesto del colore; e questo decide dove apparire, nella figura, per darle un senso, per manifestare. Pochi sono i paesaggi, o le nature morte in Piscopo: egli dichiara tutta la sua attenzione alla condizione umana, nel senso consapevole, e senza vana speranza, che s’è detto. La figura è affidata ad un segno essenziale; annidata in un solo tratto, in un cenno dominante che dà il modo del corpo nella massima tensione. E’ però il colore, assolutamente inumano, lontanissimo da esigenze ritraenti, estraneo a legami anatomici, che irrompe con forza nei margini essenziali del corpo, a caricarli infinitamente di espressione; spesso a crearla, superando l’occasione del disegno. Indico solo l’acquerello “Due nudi sdraiati” che dà grande senso di profondità con la posizione alternata dei corpi, e, ancora, “Amanti” che chiude tra parentesi la disperazione per abbandonarsi almeno un attimo, con toni chiari e armonici, alla fortuna, non comune, delle affinità elettive.

Giancarlo Vallone (1998)



            








Giusy Petracca. Note su Cesare Piscopo poeta







Nato  a Parabita (LE), Cesare Piscopo è pittore, poeta, scultore. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano, completando gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce. Ex docente di Educazione Artistica.
Egli alterna periodi di intensa attività espositiva ad altri di studio e di ricerca che, come ha scritto Mario De Marco,”appare sicuramente connotata da un coerente spirito anticonvenzionalistico”.
Ha compiuto viaggi di studio in diverse città italiane ed europee e le sue opere figurano in collezioni pubbliche e private. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: Fili d’erba (1996), Dal profondo Sud (1998) e Il mare dell’amore (2006), Messaggi dal mare (2007), e l’antologia Sotto le silenziose nuvole un mare di pensieri (2009).
La poesia e la pittura, due diversi eppure complementari “linguaggi” per comunicare con il mondo. Molteplici espressioni di un unico modo di sentire l’arte e la vita.
“Cesare – si legge nella bellissima prefazione di Dal Profondo Sud, a cura di Mario De Marco, -  è un uomo che sa guardarsi dentro e attorno, riesce ad interrogare e ad interrogarsi, tuttavia il suo porgere è semplice, è privo di spocchia e si palesa con umiltà e semplicità, forse con la speranza di ottenere risposte, forse perché crede nella possibilità della trasmutazione di ognuno e di tutti”.
I suoi versi sono infatti semplici ma raffinati, delicati ma intensi, e raccontano stati d’animo con la stessa levità  del pennello sulle sue tele, dove la luce del paesaggio salentino ma anche l’essenza vera di questa terra viene sublimata e raccontata. Sono stati d’animo, sguardi sul mondo e riflessioni sull’esistenza umana che sfociano talvolta in pessimismo, ma sono anche pregni di amore per la bellezza, per la natura, per la compagna della propria vita, e per la donna in genere. In un mondo sempre più stereotipato Piscopo con estrema naturalezza sa parlare di amore e soprattutto ama e sa commuoversi: le onde del mare, un tramonto, la luna che illumina il cielo stellato sono emozioni e segni tangibili di una speranza, quella di un abbraccio universale:

Questo mare ci circonda
in un unico immenso abbraccio

Isolati noi ci amiamo
Immensamente ci amiamo!

L’amore infatti è la molla di tutto; fonte di dolore come di illusione, di gioia come di atavici dubbi: “Ho smarrito la ragione vivendo/ o forse ho ritrovato amando/ la ragione di vivere”. Il canto del poeta non sa trovare risposte ma con i suoi innumerevoli interrogativi ricerca continuamente il senso della vita.

Giusy Petracca










domenica 29 gennaio 2012

Daniela Cecere. Perenne movimento nella pittura di Cesare Piscopo



E’ in perenne movimento, la mano e l’impronta stilistica di Cesare Piscopo; quello dell’artista salentino è un lavoro che non conosce approdi fissi, ma che avanza senza concedersi lunghe soste: non è un’onda che batte continuamente sulla stessa spiaggia, ma una nube che solca cieli sempre nuovi pur restando inconfondibilmente se stessa. Alla base di questa continua ricerca c’è l’amore sconfinato per il colore, sia che esso venga utilizzato nelle tecniche più tradizionali dell’olio e dell’acquerello e in soggetti classici come il paesaggio, sia che divenga segno potente e aggressivo sulle figure o che si spanda, veloce, libero e disinvolto in macchie acquose su carte ruvide o in densi agglomerati sulla tela. Ed è così che la ricerca fa una sosta, recentemente, sulla materializzazione di paesaggi non convenzionali e densi di emozioni, avvalendosi di una tecnica che non lascia spazio a potenziali imitatori: il segno non esiste più; sono i colori stessi che, fondendosi tra loro sul supporto, creano le forme. La materia pittorica non viene semplicemente “depositata” sulla tela e lì abbandonata, ma è continuamente ripresa in più fasi, sovrapponendo il colore strato su strato, dando vita a suggestioni cromatiche intense, lasciando intravedere ciò che c’è “al di sotto” di ogni passaggio del pennello in maniera analoga al distribuirsi di più superfici di intonaco su una parete antica e vissuta. E’ il trasparire del colore degli strati inferiori della pittura che illumina di vita l’intero lavoro rendendo inedita la scelta di soggetti classici come i paesaggi. Dal caotico – ma non casuale – sovrapporsi delle tinte si visualizzano gli elementi di una natura in perenne mutamento; onde, alberi, cieli, rocce, prendono forma dalla materia primordiale e si evolvono sulla tela davanti agli occhi dello spettatore: si può parlare di una pittura in movimento; tutto nel lavoro di Cesare Piscopo, si muove e si modifica: lo stile, i colori, le forme. Tutto si muove, ma in modo tale da non rendersene subito conto, gradualmente. Esattamente come avviene nella natura stessa. Daniela Cecere 




                                                                                                                                                                                                      
    


Nicola G. De Donno. Nota sulla ricerca pittorica di Cesare Piscopo



Nell’occasione della prossima mostra di suoi dipinti paesistici, provo a delineare, in Cesare Piscopo, la complessa personalità dell’artista, attingendo a sue attestazioni (le teoretiche e le creative) che riguardano l’arte. Tra le componenti che motivano i dipinti, la ricerca teoretica è intervenuta di conserva con l’estro espressivo. Lo assilla da almeno un trentennio. Si rilegga la dichiarazione di poetica figurativa, che ha premesso alla mostra leccese di sedici paesaggi nel marzo del 1971 (Galleria Elicona). In quella, Cesare, allora ventiquattrenne, già teorizzava “la natura come […] sensibile alle inquietudini umane”, ed “in comunicazione con l’artista”, il quale, “spinto da forze misteriose”, la invita “a partecipare al suo intimo dramma esistenziale”. Sicché “il paesaggio acquista valore di presenza che incombe su di noi col suo magico potere fascinatorio”. Dunque, l’artista nel dipinto deve tentare “il passaggio” da “una descrizione esteriore (…) alla presentazione di una visione allucinata attraverso un gioco di segreti accordi ritmici”. Al di là della romantica e rischiosa competizione con ineffabilità misteriose – “magico”, “fascinatorio”, “allucinata”, e degli inconvenienti insiti in quelle, resta valida, e basilare nel pensiero di Piscopo, la convinzione di una esistente nascosta consonanza vitale fra la natura e l’uomo (simboleggiandosi tuttavia la natura in “paesaggio” e l’uomo in “artista”). Consonanza nella quale ruolo positivo esercita “l’alito di vita” della natura, ruolo negativo, di rottura, il “dramma esistenziale” dell’uomo. La radice di una tale visione è riconoscibile nel mito suggestivo del paradiso perduto e della collegata utopia di una fattibile ricomposizione dell’Eden con la felicità sua: mito e utopia largamente diffusi nella cultura occidentale (non la popolare solamente) ebraico-cristiana. Aver attinto a questa nobile fonte culturale una giustificazione teorica, che non solamente risponde al suo personale anelito, ma è nel contempo capace di presa universale e socialmente, eticamente, pregnante, è indice di ispirazione artistica ambiziosa e totale. Ma comporta di fatto una ricerca tecnica incontentabilmente ansiosa di perfezionare la trasfigurazione naturalistica ed umana. Tanto da poter generare prostrazioni accanto agli entusiasmi.
Insegue infatti il conseguimento di una resa pittorica, in cui ispirazione immediata e mediato controllo intellettivo, così della componemte segnica come della cromatica, appaiono compenetrarsi spontaneamente, da ispirazione, quasi per sintesi a priori, pur essendo tale armonia un risultato di intenzionalità elaborative gnomicamente finalizzate. Credo che tale esigenza esprima il “gioco di segreti accordi ritmici” indicato da Piscopo giovane nel 1971.
Tale esplicato concetto organico della sua pittura personalizza, con un suo caratteristico lirismo, la collocazione di Cesare Piscopo entro il variopinto panorama di sperimentazione degli stili che ha caratterizzato riccamente le arti figurative contemporanee, a partire in sostanza dal simbolismo letterario, e fino a giungere al rifiuto e distruzione della figura. Tale ricchezza di stili è in parte non piccola legabile alla precarietà esistenziale, che il tumultuoso processo delle scienze e delle tecniche, e purtroppo i conseguiti squilibri etnici ed economici su orizzonte globale, hanno portato e continuano a portare con sé. Come tante altre guise correntistiche nel risvolto formale, questo malessere sociale influisce nel risvolto contenutistico della pittura di Piscopo, non meno che in quella di maestri che lo hanno preceduto. Non poteva non influire. Ma non la rende imitazione piatta. In particolare, è tipica di Piscopo la compenetrazione ossimorica (l’ossimoro compare in più di un risvolto dell’arte di lui) di angoscia e speranza, che nelle opere migliori chiaramente ne marca il lirismo. Il disagio, sempre più allargantesi su scala mondiale, impegna la sensibilità non solamente etica, ma anche estetica dell’artista. E produce, accanto all’intento gnomico e all’emotivo, quello tecnico di poter ottenere, dalla trasfigurazione del dipinto, una duplicazione, pur questa ossimorica, della suggestività di una realtà paesistica, che venga colta non solo nel momento che si fissa, ma anche nell’inesauribile suo fluire. Quanto all’aspetto gnomico, non è fuor di luogo rammemorare che nella prima metà del nostro secolo, ed anche più in qua, esercitava influenza semiegemonica nel pensiero estetico, non solamente italiano, l’idea crociana della bellezza artistica come valore per sua essenza autonomo, “distinto” da qualsiasi forma di condizionamento pratico: arte per l’arte, liricità pura, eticità della bellezza estetica di per sé, in quanto bellezza estetica. Correnti pittoriche, quali l’astrattismo, si sono generate in misura notevole sotto l’ombrello della dottrina estetica dell’arte per l’arte. La catarsi (mi si passi l’estensione del termine) etica, associata da Cesare Piscopo alla sua pittura in funzione edenica, esclude che egli potesse ripudiare in soluzione definitiva (come altri, si vedrà, hanno ritenuto) la maniera figurativa dal suo stile, e convertirsi all’astratto. Anche in ciò si può intravedere una caratterizzazione personale.
L’aspirazione edenica comporta, di per sé, non appagamenti agevoli, ma incontentabilità di scavo, così della realtà come della tecnica compositiva, in rapporto all’immagine di quella che si vuole trasfigurare. Il travaglio della ricerca non è stato finora breve, e continuerà, credo, quanto continuerà per Piscopo il dipingere, cioè tutta la vita. Egli non ha mai sostato nella produzione ed esposizione di disegni e dipinti su carte e su tele, con gli strumenti, gli esperimenti e le invenzioni più vari; mai non dico eludendo, ma attenuando il dovere di scavo migliorativo all’interno della sua iniziale concezione della pittura, e il dovere di coerenza e sincerità con se stesso. Lo scavo critico ha fatto a meno, per più di un ventennio, di esternazioni a mezzo stampa, teoriche: ha preferito l’operatività feconda e silenziosa della prova e della verifica attraverso il linguaggio della matita e del pennello.
Alla parola Cesare è tornato nei primi anni novanta, col linguaggio della poesia. Io non so se aveva prima scritto poesie, come a molti succede già da adolescenti. So invece che ha obbedito all’impulso di pubblicarne non prima della metà degli anni Novanta. Quando cioè ha sentito di aver raggiunto un certo livello o condizione di maturità nell’analisi estetica della sua pittura e con ciò quasi un’impellente consapevolezza di carenze strutturali della espressione solamente visiva. Rilevo che la novità si verifica negli anni dell’esplicato apeiron (sebbene la presenza di “tracce significative di alcuni aspetti della pittura informale e di certo surrealismo” egli abbia segnalato che già comparivano nei suoi dipinti, fin dal ’71). E’ pur vero che i caratteri del linguaggio pittorico, segno e colore, sono, per così dire, liricamente più statici della parola. Sicché l’erompere del verso potrà anche ricondursi a semplice evento semantico. La contemporaneità di Apeiron è però un fatto, e un fatto è che poesia e pittura di Cesare Piscopo si sono reciprocamente integrate nella comunicazione artistica di lui, oggettivamente e soggettivamente. E appare ciò una riprova del fenomeno, già accennato e su cui tornerò, di progressiva immedesimazione dell’artista sincero con la sua arte.
Perciò mi appare fortemente sintomatico, che tappe e caratteri dell’approfondimento tecnico ed estetico (rimasto silenzioso sul piano delle enunciazioni verbali) abbiano trovato sostegno espressivo nella poesia. Sintomatico di una crescita complessiva e complessa dell’artista. I saggi poetici di Cesare Piscopo sono due.
Uno è datato 1996, l’altro 1998 (Panico editore, Galatina). Ma sono le date editoriali, non quelle della composizione dei singoli testi. I contenuti dei quali spesso riflettono gli stati d’animo dell’autore. Questi appaiono meno frequenti ed intensi nella prima raccolta: Fili d’erba; assai più frequenti ed intensi nella seconda: Dal profondo Sud. Ovviamente interessano molto la presente indagine, che riguarda lui e la sua pittura. (Non il valore letterario dei versi, che tuttavia non difettano affatto di illuminazioni stilistiche, inventiva analogica, vigore semantico).
Vi traspaiono dubbi e sconforti al punto da investire idee filosofiche quali esistenza, realtà, verità, essere; ma anche coscienza della validità dello scavo critico condotto e dei suoi esiti, insieme a speranze, ambizioni, tenacia a superare i pur ritornanti pessimismi e amarezze. A documento di tutto questo estraggo dai due volumetti una sommaria antologia dei momenti più significativi e toccanti, senza stare a ordinarli tematicamente.
Da Fili d’erba: “In assenza / di / parole / mi / guardo / intorno // Solo dolore”; “Dubito / che / io / esista”; “Abbozzato / Appena nato / Limitato / Cambiato / Invecchiato // ESSERE”; “Come / antenne / infinite / dell’albero / i / rami / verso / il / cielo”; “Occhi / dell’alba /rosata // Fili / d’erba / fra / le / rocce // Ragni / imbevuti / di / luce”; “A / sera / un / grillo /canta / il / suo / inno / alla / vita”.
Da Dal profondo Sud: “Fiori che gridano / il loro dolore”; “Pare la strada seguire le orme / di mille e più creature / intanto lontano / in un punto sfocato / germoglia la vita i suoi caduchi fiori”; “Vico delle Giravolte / rifugio della speranza / se fra i tragici muri / ancora / lampeggia /sui pallidi volti / precaria la vita”; “Realtà / è quell’onda che osservo / mobilissima verità sommersa”; “Chiarore indistinto // Infinita notte // Si piegano alberi urlanti // in oscuro tunnel // Solitario percorro una strada in salita”. Tre fra le ultime poesie: Una barchetta, Don Chisciotte, Non si apprezza ciò che non si conosce arrivano a tale forma di immedesimazione della persona del pittore con la sua vicenda artistica, da diventare trasparenti metafore di lui, o meglio di una sua condizione di spirito fra disperatamente pessimistica e rassegnatamente rinunziataria. Varrebbe la pena, se vi fosse spazio, di riportare intera la metaforica Don Chisciotte. Questo componimento, apparentemente scherzoso, anzi giocoso, esprime invece apici di disperazione miracolosamente autoironica, e contemporaneamente orgoglio di sé, artista pittore, fin dalla scelta del personaggio allusivo: quel Don Chisciotte tragico insieme e sublime entro il suo sogno ostinato di un suo Eden cavalleresco. Non meno significante di Dal profondo Sud ritengo la anteriore esperienza di Apeiron (1995), mostre e fascicoleto. Credo che proprio nei quattro anni intercorsi tra i due scritti sia maturata la immedesimazione, cui prima ho accennato, del pittore con la ricerca pittorica, quasi ricerchi anche se stesso nel rapporto con l’arte e con gli ambienti dell’arte, o meglio immedesimi a se stesso l’arte e gli ambienti dell’arte. E nel medesimo tempo si liberi del condizionamento esercitato da questi ultimi, facendosene superiore.
Credo di non andare molto lontano dal vero, se ipotizzo che gli stati di sconforto metaforizzatisi nella Barchetta, nel Don Chisciotte, nel Non si apprezza si siano in grande misura alimentati in conseguenza dell’apprezzamento dell’Apeiron nel giudizio entusiastico degli esperti. Cesare ha denominato apeiron (indefinito, indeterminato) una fase, o meglio una guisa, operativamente sperimentata, di quell’aspetto della sua ricerca critica che verte sulla genesi della “forma” nell’arte.
C’è in tale intitolazione un elegante, cultamente appropriato, forse anche compiaciuto, riferimento analogico al nome dato all’archè (principio ed essenza informe di ogni realtà formata, che all’informe ritornerà) dal filosofo presocratico Anassimandro, vissuto fra il settimo e il sesto secolo a. C.
Le opere funzionali a tale sperimentazione (e che non per questo cessavano di essere dipinti da esporre) furono in mostra a Lecce, Tricase, Otranto nel detto anno 1995, naturalmente senza affiancamenti ad altre che fossero vicine all’oggettivismo figurativo. La letteratura critica le ha salutate assai favorevolmente, ma interpretando le mostre come prova di una pura e semplice evoluzione dell’autore dallo stile figurativo all’informale e magari all’astratto: una sorta di conversione definitiva alla casualità del segno e della macchia. In sostanza un allinearsi (tardivo) ad una sorta di modernizzazione stilistica.
Con il consueto garbo e con correttezza di costume, Cesare ha riunito in un fascicoletto a stampa le interpretazioni dei critici. Lo ha tuttavia intitolato Apeiron e chiuso con una sua brevissima autoesegesi. Nella quale (come anche in citazioni di frasi non sue, che ha inserito fra riproduzioni di immagini) non professa alcuna adesione all’informale o all’astratto, pur mentre riconosce gli incrementi tecnici che ne ha ricavati: “Il mio lavoro”, scrive, “nasce quasi come liberazione da ciò che per me è costrizione, artificio, schema precostituito. Esso rappresenta un tentativo di realizzare un’immagine come evento naturale in cui le “forme” crescono e si trasformano senza sforzo. Continua poi riaffermando una concezione teleologica di pittura paesistica che non si discosta da quella che ha enunciato nel 1971.
Ma quasi trent’anni di lavoro e di indagini tecniche sono venuti progressivamente affinando: “Operando”, scrive, “una istintiva gestualità, in cui armonizzano l’elemento naturale del caso e l’elemento umano del controllo, vedo generarsi […] una trama arteriosa e metamorfica di segni colorati: materia iridescente, attributo di u mondo incontaminato in continua evoluzione che originandosi, espandendosi e ramificandosi registra un ritmo, un respiro, un soffio vitale”.
Un passaggio, insomma, dall’informe anassimandreo alle forme, attraverso le spinte, consonanti, dell’istintualità (casualità, spontaneità) e dell’intelletto (riflessione, controllo razionale). E tali spinte si motivano in funzione, artistica e gnomica a un tempo, dell’ideale, quanto si voglia utopistico, di un ritorno edenico: la fase dell’apeiron non vuole essere che una tappa della “lunga marcia” di Cesare nello scandaglio. Tappa costruttiva, certo, e certo non ultimativa. Cesare ne è, e ne è sempre stato, tenacemente convinto, anche se pause, dubbi, scoraggiamenti non gli siano mancati, né amarezza per le incomprensioni. Si è però sempre risollevato, nella fiducia di sé e del valore della sua arte. I due brani che seguono ai tre indicati, dello sconforto, e che chiudono la raccolta poetica Dal profondo Sud, attestano Cesare ben fuori dalla disperazione del Don Chisciotte. Non fuori da ogni eventuale apertura a nuove ricerche, anzi fiducioso nella loro positività maieutica. Sempre però rimanendo fermo il fine estetico-etico della ispirazione che ne caratterizza personalità e stile. Un “attributo” della pittura paesistica che la renda purificante dalla “contaminazione” attuale della natura non avrebbe alcun senso, se dal paesaggio dipinto restasse esclusa la figura umana. Né avrebbe  senso affidare all’arte valenze gnomiche, come è carattere di quella di Piscopo, e lo è stato di quella di molti altri, con proprie differenziazioni ciascuno, fin da Platone ed Aristotele. Che la figura umana non possa essere estromessa dalla figuralità naturale, che anzi appunto la incombente presenza di essa contribuisca al vigore della suggestività purificante, Piscopo lo ha pensato da sempre. Numerosissimi sono i suoi dipinti con figure umane nel paesaggio, e abbondanti quelli con preminenza delle figure.
Nel fascicolo di presentazione dell’Omaggio a Kokoschka (Castrano, aprile 1998), lo ha esplicitamente affermato: “Nella mia recente produzione pittorica si denota un ravvivato interesse per la figura umana e per il paesaggio”. Ha anche riprodotto nella prima e quarta faccia di copertina ben otto fra gli studi a penna preparativi del mirabile ritratto Dedicato a Kokoschka. Ha di seguito precisato che “volti e corpi, dai tratti grotteschi e caricaturali, rappresentano un’umanità primordiale desolata, vanamente alla ricerca di equilibrio, di armonia, di perfezione”; e che ”i paesaggi evocano, in un’atmosfera spesso cupa e drammatica, un senso di vuoto e di inquietudine esistenziale”. Sono figurazioni che si direbbero più vicine allo stato d’animo da cui è sgorgata l’analogia del Don Chisciotte, che alla generosità dello impegno edenico. Quasi che nessun lievito, neppure nascosto, di speranza edenica fosse operante. In altra pagina però del medesimo fascicolo Piscopo spiega all’intervistatore che “gli spazi aurorali” di vari paesaggi “esprimono la speranza di una convivenza più equilibrata ed armoniosa fra l’uomo e la natura”, ribadisce, cioè, l’intenzione gnomico-catartica della sua produzione paesistica. C’è incompatibilità fra le due posizioni? Oppure l’artista si propone di ottenere esiti catartici tanto popolando il paesaggio di trasfigurazioni – della natura e degli uomini – mostruose e repellenti, a condanna del disastro ecologico in corso, quanto esibendo trasfigurazioni paesistiche splendenti di bellezza, a nostalgia pungente del paradiso perduto? Anche la satira, la caricatura, il grottesco, perfino il brutto può l’artista esser capace di sublimarli in connotazione positiva di un messaggio. D’altronde nessuna contraddizione comporta l’idea di ambivalenza così del mostruoso come dell’idillico in funzione di un’unica finalità, bella o brutta, buona o cattiva che sia. Nella pittura come in qualsiasi altra forma di umana attività. Anzi, e ciò forse vale solamente per le arti, l’ambivalenza dei mezzi è ricchezza che si apre alla scelta dell’estro e della professionalità dell’artista.
Non poco, io penso, della forza vera di Cesare Piscopo pittore, e del pregio vero della sua produzione artistica sta nell’abbinamento di coerenza ideale e flessibilità sperimentale. Ciò lo rende difficile da inquadrare, quasi che abbia oltrepassato il presente, che ne abbia intuito, ne viva, la caducità culturale e voglia che il dipinto la fissi, ma anche voglia trovare una forma, nel medesimo dipinto, di comunicazione che oltrepassi la caducità. E’ esigenza, appunto, “difficile”, ossimorica, strutturale all’utopia edenica. La ispirazione poietica di Cesare Piscopo è robustamente sostanziata di storia dell’arte pittorica. Cultura storica (dovrebbe essere superfluo ricordarlo) è altra cosa da ripetizione passiva. Non toglie originalità alle opere, ma le alimenta e irrobustisce proprio perché le storicizza, le colloca durevolmente nel presente. Può avvenire nell’oggi che si giudichi “già vista”, e dunque non originale, effimera, l’opera dell’artista nutrito di storia, ma solo perché la si è guardata poco e male, con superficialità o, peggio, con narcisistica infatuazione.
Primeggia in Piscopo lo studio della espressione in autori contemporanei, quali Munch, Nolde, Ensor, Rouault, Kirchner, Kokoschka, Klee, Giacometti, Dubuffet, Mirò, Jorn, de Kooning (ma anche i grandi paesisti dell’impressionismo, non ultimo Van Gogh). Questo momento, infatti, della storia pittorica (nel quale variamente vengono affrontati temi inerenti alla perdita di identità dell’uomo di massa, alla precarietà dell’esistenza, alla violazione della natura) intimamente consuona con la vocazione artistica di Cesare e con i tormenti etico-sociali che la stimolano. Né, ovviamente, il bagaglio storico di Cesare rimane sordo all’idealità di bellezza armoniosa dei Grandi rinascimentali, né a quello di ingenuo stilizzato candore dei loro ugualmente grandi predecessori, tanto più che questi respirano un “realismo apparente”, in tanti aspetti non lontanissimo dall’odierno “primitivismo”. E il “realismo apparente” (come pure il “non realismo” apparente), abbiamo già accennato, è anche una dimensione non secondaria del linguaggio pittorico di Cesare.
Nella mostra che conta di organizzarsi nel prossimo febbraio, pare che Cesare abbia deciso di affidare alla sola trasfigurazione paesaggistica della natura quella efficacia catartica, che è insieme piacere estetico ed educazione ad un futuro salvifico. E non è detto che nei dipinti che esporrà egli non abbia conseguito livelli di suggestione espressiva che superino, e non di poco, la “descrizione esteriore” degli oggetti. Né è detto che con ciò non abbia nulla ottenuto della finalità, pur utopistica, che costantemente si è andato si va proponendo, ed in ordine alla quale, esclusa ogni leziosità ornamentale o descrittiva che rompa la stretta essenzialità compositiva, si avvale di ogni materia e di ogni libertà capaci di alimentare convivenza “pacifica” dell’uomo con l’ambiente naturale. Il “pacifica” è termine suo del pittore Cesare Piscopo. Ma proprio di “pace” edenica, che la comparsa dell’uomo nell’Eden ha rotto, cantò anche il poeta magliese morto giovane undici anni fa, dileggiato dai benpensanti, Salvatore Toma. Ora lo si sta comprendendo e rivalutando.
Ripeto, la “salita” di Cesare è sempre in itinere: “Solitario / percorro / una strada in salita” (Dal profondo Sud, p.19). E ad un intervistatore recente, che gli ha chiesto: “Come considera la sua arte?”, ha risposto: “Come un albero le cui radici rappresentano la realtà, il fusto e i rami la mia sensibilità, le foglie il prodotto artistico finale” (Omaggio a Kokoschka). E chi non sa che le foglie, anche quelle cosiddette perenni, cadono e si rinnovano? E non sente il poeta Piscopo “come / antenne / infinite / dell’albero / i rami / verso / il cielo”? (Fili d’erba, p.19).

 Tratto da: Nicola G. De Donno, Nota breve sulla ricerca pittorica e la utopia edenica di Cesare Piscopo; Editrice Salentina, Galatina - 1999.






Tutti i diritti riservati