Già
alla fine del 1995 scrissi su Cesare Piscopo un’impressione legata, quasi
esclusivamente, agli inchiostri su carta che mi sembravano ispirati, dirò così,
all’apparentemente informale. In realtà un giudizio sulla pittura di Piscopo è
possibile solo attraverso la scoperta del suo modo intellettuale di essere
pittore. La visita del suo studio consente un’attendibile valutazione del
rapporto tra massa sterminata di lavori preparatori e opera finita. Consente,
soprattutto, di mettere a fuoco il fondo fervente della sua vocazione pittorica
e l’importanza, centrale nella sua formazione, dell’espressionismo in specie
tedesco, suggellata, quasi simbolicamente, dal suo incontro giovanile con
Kokoschka, al quale Piscopo ha recentemente dedicato un “omaggio”, nell’aprile
del ’98, in Casarano. Sopravvissuti alle volontarie eliminazioni, e quasi
celati tra schizzi, inchiostri, bozze, libri, appunti di lavoro, emergono
alcuni paesaggi degli anni Settanta, già non riproduttivi, ma anzitutto intesi
quali prove del tratto o controllo del segno e dell’esattezza disegnativa, e
che, non a caso, tendono a dissolversi per una più essenziale rappresentazione.
E’ questo il filo che orienta il ventennio seguente di ricerca pura, di
preparazione continua ad un universo evidentemente espressionista. In un
appunto della fine degli anni Ottanta, Piscopo riflette: “volti e personaggi
appaiono, a chi sa osservare, in dissolvenze di linee e di macchie non
programmate, e disposte senza un ordine apparente”. I materiali erano allora, e
sono oggi, penna, matita colorata, inchiostri, tempere, colori ad olio, acrilici,
soprattutto acquarello perché, evidentemente, Piscopo ha bisogno di segno
rapido per fissare l’immagine. Questo rivela che non è l’oggetto, qualunque
sia, a definire la sua pittura, ma il modo e il momento del suo essere colto
dal soggetto. E’ la presenza del soggetto ad affermarsi nel dipingere, e, come
in ogni espressionismo, l’affermazione è forte: è il soggetto a decidere il
senso dell’incontro e l’essenza della cosa. Dal 1989 al 1992, la
sperimentazione raggiunge alcuni punti intensi di maturazione. Una ricca
quantità di disegni a matita colorata e a penna, credo sconosciuti, sviluppa
labirinti e intrichi; ma nel grumo dei
segni (linee e colori) s’intravede un volto, certo trasfigurato, nemmeno
caratterizzato; ma presente. E’ soltanto un inconscio rifiuto del puro astrattismo,
un’adesione istintiva e residuale al figurativo, o anche una domanda sull’essere?
Lo stesso dubbio ci offrono i (più rari) esperimenti di collage (del ’90) che
evocano nell’insieme immagini grottesche, cioè appunto un umano trasfigurato,
senza che sia facile, anche qui, cogliere il senso di questa pittura i cui
lemmi affondano sempre nell’espressionismo, ma con evidente valenza astratta. E’
Piscopo stesso a svelarci qualcosa; egli dice ancora: “il brutto (anatomico), l’orrido,
il grottesco, sembrano essere il risultato di un tentativo di ricerca analitica
condotta con gli strumenti pittorici, all’interno del mio io”.
Qui c’è anche l’esigenza psichica di
capire il movente della propria pittura, del proprio presentare l’oggetto in un
certo modo. Lo scavo dell’io e la scelta espressionistica sono vie convergenti
anzitutto nella ricerca di un senso per la vita, che intanto rivela inquietudine e dubbio, quantità di studio e
passione sperimentale. Direi che alcuni disegni a matita del 1992 provano la
radicalità del dubbio ontologico di Piscopo, e già nella differenza delle tecniche.
Profondi interventi di gomma cancellano il tratto delle figure, le riducono all’essenza
figurativa (come una “radiografia dell’umano”, afferma l’autore) e tentano di
portare alla luce lo scavo interiore. Poi un unico tratto nero deciso, largo, a
pennello, borda dall’esterno la figura, come se intendesse fermare l’immagine,
affermare la presenza d’un interno, dividerlo dal fondo. La necessità di questo
punto fermo, per quanto discusso e laborioso, a me sembra centrale per capire l’impegno
di Piscopo, pur nella congerie delle sperimentazioni. Nella produzione del 1994
non mancano approcci al surrealismo, forse a quello fabuloso di Mirò, ma già
nell’uso del colore, istintivo ma non mai casuale, riemerge la vena figurativa,
graduata in un tracciato ammiccante dal complesso dei segni; fino alla
formalizzazione estrema, nella quale la figura è data da rigidi segni neri:
austere affermazioni di presenze pure, indistinte, senza carattere alcuno.
Siamo all’ermetismo puro, e cronologicamente siamo alle soglie del 1995, quando
in alcune mostre personali, accolte con giudizi vari editi in “Apeiron”, Cesare
Piscopo affronta decisamente questa sorda provincia salentina con una serie di
inchiostri su carta che rompono, a me sembra, la sua produzione espressionista.
Non confonderei in una generica idea di sviluppo l’ermetismo figurale del ’94 e
l’estrema rarefazione del segno, esclusivamente colorico, di questi inchiostri.
Io vi notai, l’ho detto, solo un apparente approdo informale e, piuttosto, una ‘nostalgia
dell’essere esplosa oltre il figurativo’. L’immagine più felice è quella di ‘forme
organiche’, di Marina Pizzarelli, che estende un titolo scelto da Piscopo
stesso. Si trattava, infatti, di una domanda sulla possibile essenza elementare
dell’esistente, e non solo umano, come svela una citazione di Aime Cesaire.
Questa cesura nel modo pittorico, una tendenziale rottura nell’espressionismo,
mi sembra dovuta anzitutto alla radice ‘ontologica’ della pittura in Piscopo:
il suo isolamento provinciale pone in discussione la possibilità stessa di
fondare la comunicazione; e nasce (pittoricamente) la ricerca sul gene comune
dell’esistente e della vita, e della partecipazione. E’ dunque una ricerca per
la vita: che l’arte abbia risposto o no; che la forza morale di Piscopo sia
esaltata dal successo di questa esperienza, o piuttosto dal suo fallimento,
egli è tornato presto all’espressionismo, e figurale, con la volontà
(tipicamente espressionista) di legare l’essenza degli oggetti alla propria
pittura, e forse di educare all’arte. Già nel 1966 tenuissimi sintomi anatomici
affidati ad acquerelli rosa incarnano, quasi, la figura nelle costruzioni ‘organiche’
pensate l’anno precedente. Questo superamento della fase ‘organica’ a me pare
piuttosto un abbandono della ricerca sul gene comune dell’esistente. Il ritorno
all’espressionismo, ch’è già cosa fatta nel ’96, esprime, io credo, la
raggiunta consapevolezza che l’appartenere dell’esistente a comuni radici
biologiche non risolve, e forse drammatizza, la questione morale della
partecipazione. L’incomunicabilità, l’incomprensione, la solitudine, forse ora
sembrano, a Piscopo, connotati sostanziali dell’esistenza morale. La bordatura
nera che, nel 1995, divideva le figure dal fondo, ora le ingloba, diventa un
unico, denso fondo nero. In quasi tutti i nuovi acquerelli del 1996, la figura,
o la serie di figure, occupano una spazio dominato dal fondo. Vale ad esprimere
l’unicità dell’esistenza, o anche la sua diversità, irrilevante in relazione
all’assoluto? Mario De Marco ha notato questo orientamento esistenziale dell’espressionismo
di Cesare Piscopo. Un acquerello dello stesso anno propone una figura non solo
manifestata sul fondo, ma schiacciata da esso, ed è intitolata ‘Angoscia’. E’ forse
una citazione dalle celebri xilografie (esposte a Firenze nel 1964) di Munch
che è, tra i padri dell’espressionismo, il più sensibile al tema dell’esistenza,
ed un contemporaneo di Heidegger. Tuttavia questa produzione di Piscopo, solo
in parte nota, e cioè nota in quella parte
esposta a Maglie nel 1997, ha valori diversi di esistenza, e citazioni più sottili
da cogliere. Un quadro, ”Cellule”, ripropone il tema “organico”, ma calato
definitivamente nell’umano: solo volti tondi, che si affrontano circolarmente
sugli immutabili toni neri del fondo: monadi irripetibili e indistinte (cioè
uguali) nel loro essere gettate nel mondo. Poi, però, il tratto dei volti si
irrigidisce, si drammatizza, riprende l’antica sagoma grottesca; diviene “Maschere”:
tre volti definiti, nel loro emergere titanico dal nero, quasi esclusivamente
dal contorno spigoloso, esaltato, negli interni, di giallo e di rosso, con
effetti di grande tensione. Ora le maschere, come in Ensor (cioè nell’idea di
Ensor) sono metafora di fungibilità, sostituiscono ogni possibile tipologia di
volto, in ragione di un comune destino: lo spegnersi nel nero. Grottesca o
maschera, essa vale come archetipo, o simbolo; come cifra d’ogni esistenza che
placa il dramma dell’incomunicabilità nella coscienza della profonda eguaglianza
che accomuna le diversità. Non è l’unico messaggio. I “Volti”, sempre del 1996
(ora in collezione privata), sono assai più caratterizzati; sono forse un uomo
e una donna, come in un celebre acquerello di Nolde, e con le stese tonalità di
Nolde: potentemente espressivi, l’uno scompare guardando l’altro per forza
ipnotica non della forma, ma del colore differenziale. Uomo e donna qui (e
spesso in Piscopo) tendono, sul fondo nero del nulla, l’unico ponte tra
individui, fatto di istinti, o di amore. In una sua poesia di “Fili d’erba”, il
pittore dice alla donna: “immenso grigio ci divide / e poche foglie bagnate di
rosso / come segnali appesi”.
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