lunedì 6 febbraio 2012

Giancarlo Vallone. La figura umana nella pittura di Cesare Piscopo






Già alla fine del 1995 scrissi su Cesare Piscopo un’impressione legata, quasi esclusivamente, agli inchiostri su carta che mi sembravano ispirati, dirò così, all’apparentemente informale. In realtà un giudizio sulla pittura di Piscopo è possibile solo attraverso la scoperta del suo modo intellettuale di essere pittore. La visita del suo studio consente un’attendibile valutazione del rapporto tra massa sterminata di lavori preparatori e opera finita. Consente, soprattutto, di mettere a fuoco il fondo fervente della sua vocazione pittorica e l’importanza, centrale nella sua formazione, dell’espressionismo in specie tedesco, suggellata, quasi simbolicamente, dal suo incontro giovanile con Kokoschka, al quale Piscopo ha recentemente dedicato un “omaggio”, nell’aprile del ’98, in Casarano. Sopravvissuti alle volontarie eliminazioni, e quasi celati tra schizzi, inchiostri, bozze, libri, appunti di lavoro, emergono alcuni paesaggi degli anni Settanta, già non riproduttivi, ma anzitutto intesi quali prove del tratto o controllo del segno e dell’esattezza disegnativa, e che, non a caso, tendono a dissolversi per una più essenziale rappresentazione. E’ questo il filo che orienta il ventennio seguente di ricerca pura, di preparazione continua ad un universo evidentemente espressionista. In un appunto della fine degli anni Ottanta, Piscopo riflette: “volti e personaggi appaiono, a chi sa osservare, in dissolvenze di linee e di macchie non programmate, e disposte senza un ordine apparente”. I materiali erano allora, e sono oggi, penna, matita colorata, inchiostri, tempere, colori ad olio, acrilici, soprattutto acquarello perché, evidentemente, Piscopo ha bisogno di segno rapido per fissare l’immagine. Questo rivela che non è l’oggetto, qualunque sia, a definire la sua pittura, ma il modo e il momento del suo essere colto dal soggetto. E’ la presenza del soggetto ad affermarsi nel dipingere, e, come in ogni espressionismo, l’affermazione è forte: è il soggetto a decidere il senso dell’incontro e l’essenza della cosa. Dal 1989 al 1992, la sperimentazione raggiunge alcuni punti intensi di maturazione. Una ricca quantità di disegni a matita colorata e a penna, credo sconosciuti, sviluppa labirinti  e intrichi; ma nel grumo dei segni (linee e colori) s’intravede un volto, certo trasfigurato, nemmeno caratterizzato; ma presente. E’ soltanto un inconscio rifiuto del puro astrattismo, un’adesione istintiva e residuale al figurativo, o anche una domanda sull’essere? Lo stesso dubbio ci offrono i (più rari) esperimenti di collage (del ’90) che evocano nell’insieme immagini grottesche, cioè appunto un umano trasfigurato, senza che sia facile, anche qui, cogliere il senso di questa pittura i cui lemmi affondano sempre nell’espressionismo, ma con evidente valenza astratta. E’ Piscopo stesso a svelarci qualcosa; egli dice ancora: “il brutto (anatomico), l’orrido, il grottesco, sembrano essere il risultato di un tentativo di ricerca analitica condotta con gli strumenti pittorici, all’interno del mio io”.
Qui c’è anche l’esigenza psichica di capire il movente della propria pittura, del proprio presentare l’oggetto in un certo modo. Lo scavo dell’io e la scelta espressionistica sono vie convergenti anzitutto nella ricerca di un senso per la vita, che intanto rivela  inquietudine e dubbio, quantità di studio e passione sperimentale. Direi che alcuni disegni a matita del 1992 provano la radicalità del dubbio ontologico di Piscopo, e già nella differenza delle tecniche. Profondi interventi di gomma cancellano il tratto delle figure, le riducono all’essenza figurativa (come una “radiografia dell’umano”, afferma l’autore) e tentano di portare alla luce lo scavo interiore. Poi un unico tratto nero deciso, largo, a pennello, borda dall’esterno la figura, come se intendesse fermare l’immagine, affermare la presenza d’un interno, dividerlo dal fondo. La necessità di questo punto fermo, per quanto discusso e laborioso, a me sembra centrale per capire l’impegno di Piscopo, pur nella congerie delle sperimentazioni. Nella produzione del 1994 non mancano approcci al surrealismo, forse a quello fabuloso di Mirò, ma già nell’uso del colore, istintivo ma non mai casuale, riemerge la vena figurativa, graduata in un tracciato ammiccante dal complesso dei segni; fino alla formalizzazione estrema, nella quale la figura è data da rigidi segni neri: austere affermazioni di presenze pure, indistinte, senza carattere alcuno. Siamo all’ermetismo puro, e cronologicamente siamo alle soglie del 1995, quando in alcune mostre personali, accolte con giudizi vari editi in “Apeiron”, Cesare Piscopo affronta decisamente questa sorda provincia salentina con una serie di inchiostri su carta che rompono, a me sembra, la sua produzione espressionista. Non confonderei in una generica idea di sviluppo l’ermetismo figurale del ’94 e l’estrema rarefazione del segno, esclusivamente colorico, di questi inchiostri. Io vi notai, l’ho detto, solo un apparente approdo informale e, piuttosto, una ‘nostalgia dell’essere esplosa oltre il figurativo’. L’immagine più felice è quella di ‘forme organiche’, di Marina Pizzarelli, che estende un titolo scelto da Piscopo stesso. Si trattava, infatti, di una domanda sulla possibile essenza elementare dell’esistente, e non solo umano, come svela una citazione di Aime Cesaire. Questa cesura nel modo pittorico, una tendenziale rottura nell’espressionismo, mi sembra dovuta anzitutto alla radice ‘ontologica’ della pittura in Piscopo: il suo isolamento provinciale pone in discussione la possibilità stessa di fondare la comunicazione; e nasce (pittoricamente) la ricerca sul gene comune dell’esistente e della vita, e della partecipazione. E’ dunque una ricerca per la vita: che l’arte abbia risposto o no; che la forza morale di Piscopo sia esaltata dal successo di questa esperienza, o piuttosto dal suo fallimento, egli è tornato presto all’espressionismo, e figurale, con la volontà (tipicamente espressionista) di legare l’essenza degli oggetti alla propria pittura, e forse di educare all’arte. Già nel 1966 tenuissimi sintomi anatomici affidati ad acquerelli rosa incarnano, quasi, la figura nelle costruzioni ‘organiche’ pensate l’anno precedente. Questo superamento della fase ‘organica’ a me pare piuttosto un abbandono della ricerca sul gene comune dell’esistente. Il ritorno all’espressionismo, ch’è già cosa fatta nel ’96, esprime, io credo, la raggiunta consapevolezza che l’appartenere dell’esistente a comuni radici biologiche non risolve, e forse drammatizza, la questione morale della partecipazione. L’incomunicabilità, l’incomprensione, la solitudine, forse ora sembrano, a Piscopo, connotati sostanziali dell’esistenza morale. La bordatura nera che, nel 1995, divideva le figure dal fondo, ora le ingloba, diventa un unico, denso fondo nero. In quasi tutti i nuovi acquerelli del 1996, la figura, o la serie di figure, occupano una spazio dominato dal fondo. Vale ad esprimere l’unicità dell’esistenza, o anche la sua diversità, irrilevante in relazione all’assoluto? Mario De Marco ha notato questo orientamento esistenziale dell’espressionismo di Cesare Piscopo. Un acquerello dello stesso anno propone una figura non solo manifestata sul fondo, ma schiacciata da esso, ed è intitolata ‘Angoscia’. E’ forse una citazione dalle celebri xilografie (esposte a Firenze nel 1964) di Munch che è, tra i padri dell’espressionismo, il più sensibile al tema dell’esistenza, ed un contemporaneo di Heidegger. Tuttavia questa produzione di Piscopo, solo in parte  nota, e cioè nota in quella parte esposta a Maglie nel 1997, ha valori diversi di esistenza, e citazioni più sottili da cogliere. Un quadro, ”Cellule”, ripropone il tema “organico”, ma calato definitivamente nell’umano: solo volti tondi, che si affrontano circolarmente sugli immutabili toni neri del fondo: monadi irripetibili e indistinte (cioè uguali) nel loro essere gettate nel mondo. Poi, però, il tratto dei volti si irrigidisce, si drammatizza, riprende l’antica sagoma grottesca; diviene “Maschere”: tre volti definiti, nel loro emergere titanico dal nero, quasi esclusivamente dal contorno spigoloso, esaltato, negli interni, di giallo e di rosso, con effetti di grande tensione. Ora le maschere, come in Ensor (cioè nell’idea di Ensor) sono metafora di fungibilità, sostituiscono ogni possibile tipologia di volto, in ragione di un comune destino: lo spegnersi nel nero. Grottesca o maschera, essa vale come archetipo, o simbolo; come cifra d’ogni esistenza che placa il dramma dell’incomunicabilità nella coscienza della profonda eguaglianza che accomuna le diversità. Non è l’unico messaggio. I “Volti”, sempre del 1996 (ora in collezione privata), sono assai più caratterizzati; sono forse un uomo e una donna, come in un celebre acquerello di Nolde, e con le stese tonalità di Nolde: potentemente espressivi, l’uno scompare guardando l’altro per forza ipnotica non della forma, ma del colore differenziale. Uomo e donna qui (e spesso in Piscopo) tendono, sul fondo nero del nulla, l’unico ponte tra individui, fatto di istinti, o di amore. In una sua poesia di “Fili d’erba”, il pittore dice alla donna: “immenso grigio ci divide / e poche foglie bagnate di rosso / come segnali appesi”.     
                                                                                       

Sono temi che Cesare Piscopo articola anche con una lunga fedeltà ai materiali. Egli, spesso, usa mescolare i colori all’acquerello con il bianco coprente o il nero di china. Così, se da un lato il colore cede un poco della sua trasparenza, dall’altro acquista in tensione e in contrasto, caricandosi di densità emotiva. Meno frequente è l’uso dei colori ad olio o degli acrilici; eppure, quando li adopera, il dominio dell’ispirazione è totale. L’idea centrale, il destino comune, l’heideggeriano essere per la morte, è reso in “Disfacimento” (un acquerello esposto a Casarano nel 1998) con una penetrazione del fondo nelle costole degli umani e, forse più discorsivamente, in “Danza macabra”, ma è imprudente farsi suggestionare dai titoli che sono, per definizione, pretestuosi. C’è molta maturità in questa pittura; anche il graduale abbandono dei fondi neri prova il saldo sviluppo della poetica di Piscopo e l’aggressività di una raggiunta convinzione, che vuole imporsi con tutto il suo mondo. Come in ogni autentico espressionismo, la volontà, l’io, è dato nel colore. Anzi la forma, specie se figurale, è pretesto del colore; e questo decide dove apparire, nella figura, per darle un senso, per manifestare. Pochi sono i paesaggi, o le nature morte in Piscopo: egli dichiara tutta la sua attenzione alla condizione umana, nel senso consapevole, e senza vana speranza, che s’è detto. La figura è affidata ad un segno essenziale; annidata in un solo tratto, in un cenno dominante che dà il modo del corpo nella massima tensione. E’ però il colore, assolutamente inumano, lontanissimo da esigenze ritraenti, estraneo a legami anatomici, che irrompe con forza nei margini essenziali del corpo, a caricarli infinitamente di espressione; spesso a crearla, superando l’occasione del disegno. Indico solo l’acquerello “Due nudi sdraiati” che dà grande senso di profondità con la posizione alternata dei corpi, e, ancora, “Amanti” che chiude tra parentesi la disperazione per abbandonarsi almeno un attimo, con toni chiari e armonici, alla fortuna, non comune, delle affinità elettive.

Giancarlo Vallone (1998)



            








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