Non sono un critico “laureato”. L’urlo e il sogno di Cesare Piscopo non potrò
sistemarli con una delle tante e paludate cattedratiche filosofie dell’estetica
che rinchiudono in nicchie precostituite l’opera pittorica, il verso, il canto.
Ho solo un cuore che sente. E avverte con animo turbato e commosso. Questo
forse basta per Piscopo. Perché l’analisi consueta gli darebbe solo etichette
che lo attaccherebbero ad un chiodo come si fa con una farfalla da collezione.
Lui cerca altro. Un cuore appunto a cui far sentire quella vibrazione
assordante che lo tormenta. Egli è l’uomo che tenta, nonostante l’apparente
fragilità dell’esistenza, l’antropomorfo che anela a diventare angelica
farfalla, il “faber” che costruisce dalle macerie della condizione umana.
E’ vero. Non c’è pace nell’arte di Cesare
Piscopo. C’è invece la febbrile, urgente ricerca di una identificazione dell’anima,
l’eterna domanda sull’essere, un rapporto, a volte ironico e grottesco, a volte
inquietante ed esasperato, di amore – odio verso tutto ciò che è corpo, quindi
materia che imprigiona, che rende mortali. Eppure la bravura di questo “difficile”
artista sta nel riuscire a trasmettere emozioni comunque positive. Comunque.
Nonostante la rappresentazione di figure distorte, di immagini trasfigurate, di
paesaggi disperati. Non c’è opera di Piscopo che non lasci uno spiraglio di
luce, e la sua ricerca, in fondo, trova in se stessa una risposta al travaglio
interiore dell’artista e quindi, più in generale, dell’uomo: una meravigliosa
unità dell’immagine creativa, il raggiungimento della perfezione assoluta nell’imperfezione
relativa. In questa dimensione le forme non hanno più importanza se non per
tracciare una linea, immaginaria, della diversità – unità dell’universo. Ecco
allora che nei suoi paesaggi gli alberi diventano corpi (annullati spazio e
tempo), i rami braccia protese verso uno sfondo che altro non è (e lo disvelano
i colori) che la continuazione dell’opera creativa che si è fatta materia.
Quella materia che Cesare Piscopo “imprigiona”, immaginando volti e figure,
nelle sue ricorrenti bordature nere ma che nei paesaggi di colpo si scioglie,
scivola verso l’orizzonte, liberata finalmente da ogni tipo di vincoli.
Se la continuità tra volti, figure e
paesaggi corre sul filo di un unico, travagliato, percorso interiore, teso alla
ricerca della pura presenza, questo non significa aver esaurito l’esplorazione
pittorica dell’universo dell’artista. Altre zone d’ombra vanno messe a fuoco
per comprendere appieno l’arte di Cesare. E sono proprio i paesaggi a fornirci
un’altra, violenta, chiave di lettura. E chi ritiene che Piscopo privilegi a
questo tema quello sulla condizione umana dovrà ricredersi. La sua produzione
più recente è composta da decine e decine di scorci salentini. “Non ho mai
abbandonato questo tema”, ammette lo stesso Piscopo, “anzi in esso mi sono
sempre rifugiato quando la ricerca e la sperimentazione sulla condizione umana
diventavano troppo drammatiche, sfibranti”. Già. E’ nella raffigurazione –
questa volta reale – dell’ambiente che Piscopo ritrova finalmente un po’ di
serenità: ”Lascio sempre uno spiraglio di luce nei miei paesaggi, anche in
quelli più cupi”, spiega egli stesso che ammette di amare questo soggetto “forse
anche più dei volti e delle figure”.
Proprio nei paesaggi emerge l’ ”altro”
Piscopo. E neanche questa volta vi si può ritrovare l’uomo mite, semplice e
schivo quale appare agli occhi di chi abbia un approccio con la sua persona.
Questo Piscopo è tutta un’altra cosa: argento vivo, ribelle, guerriero. Nel suo
acceso meridionalismo, descrive un Salento che non vuole rassegnarsi al suo
destino di dominato, che non vuole e non sarà mai addomesticato. Al tempo
stesso, descrive il suo stato d’animo. Di artista che sa di vivere isolato in
una provincia sorda, impenetrabile, che sa che qui vivrà da emarginato,
incompreso, che la sua terra gli sarà (forse) sempre matrigna. E nonostante
questo decide di non arrendersi, di non appiattirsi, soprattutto, di restare.
Cesare allora diventa “il ribelle”, ai suoi acquerelli si sostituiscono gli
oli, i colori si fanno più intensi, violenti, la materia vibrante, il pennello
diventa spada che ferisce, smuove, agita gli eventi. Il guerriero si è
svegliato, le pietre sono diventate punti fermi, calamite che impediscono ogni
fuga, il mare tempestoso, l’orizzonte rosso fuoco. E’ una lotta all’ultimo
sangue fra gli elementi. Poi il turbine comincia a placarsi, sullo sfondo una
luce gialla che indica che la tempesta sta per cessare. Per un attimo
ovviamente. Perché la natura, e con essa l’animo umano, non può far sosta. Ma
il prodigio tornerà a compiersi. Piscopo griderà ancora il suo dolore e dopo
una nuova lotta tornerà e rischiararsi dentro. Misteriosamente. “In assenza di
parole, mi guardo intorno / Solo dolore. Ma poi: “Sottili fantasmi di fumo /
Alberi bagnati di terra /Una luce argentea / serena avvolgente / ci illumina
dentro”, dice egli stesso in due sue poesie tratte dal volumetto “Fili d’erba”.
L’essenza, forse, è tutta qui.
Perciò non chiedetemi di dare un nome al
sogno di Cesare Piscopo, non ne ha bisogno. I suoi segni invocano l’esistenza
che fa pensare al Giobbe luetico, impaziente sotto l’ulcerazione dolorosa dell’umana
follia che gli grava le spalle. O evocano l’invito del fratello che disse all’altro
fratello: “Andiamo ai campi”. Cioè la tragedia che stordisce o annienta, o da
cui si esce con eroica tristezza per costruire ciò che altri hanno distrutto. Legato in una caverna, condannato a vedere
solo ombre sulla parete, ha rotto i ceppi ed ha guardato la luce. Poi l’ha
rubata a dio e riverberata sulla sua tela per darla agli uomini. E non è morto.
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