Nell’occasione della prossima mostra di suoi dipinti paesistici, provo a delineare, in Cesare Piscopo, la complessa personalità dell’artista, attingendo a sue attestazioni (le teoretiche e le creative) che riguardano l’arte. Tra le componenti che motivano i dipinti, la ricerca teoretica è intervenuta di conserva con l’estro espressivo. Lo assilla da almeno un trentennio. Si rilegga la dichiarazione di poetica figurativa, che ha premesso alla mostra leccese di sedici paesaggi nel marzo del 1971 (Galleria Elicona). In quella, Cesare, allora ventiquattrenne, già teorizzava “la natura come […] sensibile alle inquietudini umane”, ed “in comunicazione con l’artista”, il quale, “spinto da forze misteriose”, la invita “a partecipare al suo intimo dramma esistenziale”. Sicché “il paesaggio acquista valore di presenza che incombe su di noi col suo magico potere fascinatorio”. Dunque, l’artista nel dipinto deve tentare “il passaggio” da “una descrizione esteriore (…) alla presentazione di una visione allucinata attraverso un gioco di segreti accordi ritmici”. Al di là della romantica e rischiosa competizione con ineffabilità misteriose – “magico”, “fascinatorio”, “allucinata”, e degli inconvenienti insiti in quelle, resta valida, e basilare nel pensiero di Piscopo, la convinzione di una esistente nascosta consonanza vitale fra la natura e l’uomo (simboleggiandosi tuttavia la natura in “paesaggio” e l’uomo in “artista”). Consonanza nella quale ruolo positivo esercita “l’alito di vita” della natura, ruolo negativo, di rottura, il “dramma esistenziale” dell’uomo. La radice di una tale visione è riconoscibile nel mito suggestivo del paradiso perduto e della collegata utopia di una fattibile ricomposizione dell’Eden con la felicità sua: mito e utopia largamente diffusi nella cultura occidentale (non la popolare solamente) ebraico-cristiana. Aver attinto a questa nobile fonte culturale una giustificazione teorica, che non solamente risponde al suo personale anelito, ma è nel contempo capace di presa universale e socialmente, eticamente, pregnante, è indice di ispirazione artistica ambiziosa e totale. Ma comporta di fatto una ricerca tecnica incontentabilmente ansiosa di perfezionare la trasfigurazione naturalistica ed umana. Tanto da poter generare prostrazioni accanto agli entusiasmi.
Insegue infatti il conseguimento di una resa pittorica, in cui
ispirazione immediata e mediato controllo intellettivo, così della componemte
segnica come della cromatica, appaiono compenetrarsi spontaneamente, da
ispirazione, quasi per sintesi a priori, pur essendo tale armonia un
risultato di intenzionalità elaborative gnomicamente finalizzate. Credo che tale esigenza esprima il
“gioco di segreti accordi ritmici” indicato da Piscopo giovane nel 1971.
Tale esplicato concetto organico della sua pittura personalizza,
con un suo caratteristico lirismo, la collocazione di Cesare Piscopo entro il
variopinto panorama di sperimentazione degli stili che ha caratterizzato riccamente
le arti figurative contemporanee, a partire in sostanza dal simbolismo letterario,
e fino a giungere al rifiuto e distruzione della figura. Tale ricchezza di
stili è in parte non piccola legabile alla precarietà esistenziale, che il
tumultuoso processo delle scienze e delle tecniche, e purtroppo i conseguiti
squilibri etnici ed economici su orizzonte globale, hanno portato e continuano
a portare con sé. Come tante altre guise correntistiche nel risvolto formale,
questo malessere sociale influisce nel risvolto contenutistico della pittura di
Piscopo, non meno che in quella di maestri che lo hanno preceduto. Non poteva
non influire. Ma non la rende imitazione piatta. In particolare, è tipica di
Piscopo la compenetrazione ossimorica (l’ossimoro compare in più di un risvolto
dell’arte di lui) di angoscia e speranza, che nelle opere migliori chiaramente
ne marca il lirismo. Il disagio, sempre più allargantesi su scala mondiale,
impegna la sensibilità non solamente etica, ma anche estetica dell’artista. E
produce, accanto all’intento gnomico e all’emotivo, quello tecnico di poter
ottenere, dalla trasfigurazione del dipinto, una duplicazione, pur questa
ossimorica, della suggestività di una realtà paesistica, che venga colta non
solo nel momento che si fissa, ma anche nell’inesauribile suo fluire. Quanto
all’aspetto gnomico, non è fuor di luogo rammemorare che nella prima metà del
nostro secolo, ed anche più in qua, esercitava influenza semiegemonica nel
pensiero estetico, non solamente italiano, l’idea crociana della bellezza
artistica come valore per sua essenza autonomo, “distinto” da qualsiasi forma
di condizionamento pratico: arte per l’arte, liricità pura, eticità della
bellezza estetica di per sé, in quanto bellezza estetica. Correnti pittoriche,
quali l’astrattismo, si sono generate in misura notevole sotto l’ombrello della
dottrina estetica dell’arte per l’arte. La catarsi (mi si passi l’estensione
del termine) etica, associata da Cesare Piscopo alla sua pittura in funzione
edenica, esclude che egli potesse ripudiare in soluzione definitiva (come altri, si vedrà, hanno ritenuto) la maniera figurativa dal
suo stile, e convertirsi all’astratto. Anche in ciò si può intravedere una
caratterizzazione personale.
L’aspirazione edenica comporta, di per sé, non appagamenti
agevoli, ma incontentabilità di scavo, così della realtà come della tecnica
compositiva, in rapporto all’immagine di quella che si vuole trasfigurare. Il
travaglio della ricerca non è stato finora breve, e continuerà, credo, quanto
continuerà per Piscopo il dipingere, cioè tutta la vita. Egli non ha mai
sostato nella produzione ed esposizione di disegni e dipinti su carte e su
tele, con gli strumenti, gli esperimenti e le invenzioni più vari; mai non dico
eludendo, ma attenuando il dovere di scavo migliorativo all’interno della sua
iniziale concezione della pittura, e il dovere di coerenza e sincerità con se stesso. Lo scavo critico ha fatto a
meno, per più di un ventennio, di
esternazioni a mezzo stampa, teoriche: ha preferito l’operatività feconda e silenziosa
della prova e della verifica attraverso il linguaggio della matita e del
pennello.
Alla parola Cesare è tornato nei primi anni novanta, col
linguaggio della poesia. Io non so se aveva prima scritto poesie, come a molti
succede già da adolescenti. So invece che ha obbedito all’impulso di
pubblicarne non prima della metà degli anni Novanta. Quando cioè ha sentito di
aver raggiunto un certo livello o condizione di maturità nell’analisi estetica
della sua pittura e con ciò quasi un’impellente consapevolezza di carenze strutturali della espressione solamente visiva.
Rilevo che la novità si verifica negli anni dell’esplicato apeiron (sebbene la
presenza di “tracce significative di alcuni aspetti della pittura informale e
di certo surrealismo” egli abbia segnalato che già comparivano nei suoi dipinti,
fin dal ’71). E’ pur vero che i caratteri del linguaggio pittorico, segno e
colore, sono, per così dire, liricamente più statici della parola. Sicché
l’erompere del verso potrà anche ricondursi a semplice evento semantico. La
contemporaneità di Apeiron è però un fatto, e un fatto è che poesia e pittura
di Cesare Piscopo si sono reciprocamente integrate nella comunicazione
artistica di lui, oggettivamente e soggettivamente. E appare ciò una riprova
del fenomeno, già accennato e su cui tornerò, di progressiva immedesimazione
dell’artista sincero con la sua arte.
Perciò mi appare fortemente sintomatico, che tappe e caratteri
dell’approfondimento tecnico ed estetico (rimasto silenzioso sul piano delle
enunciazioni verbali) abbiano trovato sostegno espressivo nella poesia.
Sintomatico di una crescita complessiva e complessa dell’artista. I saggi
poetici di Cesare Piscopo sono due.
Uno è datato 1996, l’altro 1998 (Panico editore, Galatina). Ma
sono le date editoriali, non quelle della composizione dei singoli testi. I
contenuti dei quali spesso riflettono gli stati d’animo dell’autore. Questi
appaiono meno frequenti ed intensi nella prima raccolta: Fili d’erba; assai più
frequenti ed intensi nella seconda: Dal profondo Sud. Ovviamente interessano
molto la presente indagine, che riguarda lui e la sua pittura. (Non il valore
letterario dei versi, che tuttavia non difettano affatto di illuminazioni
stilistiche, inventiva analogica, vigore semantico).
Vi traspaiono dubbi e sconforti al punto da investire idee
filosofiche quali esistenza, realtà, verità, essere; ma anche coscienza della
validità dello scavo critico condotto e dei suoi esiti, insieme a speranze,
ambizioni, tenacia a superare i pur ritornanti pessimismi e amarezze. A
documento di tutto questo estraggo dai due volumetti una sommaria antologia dei
momenti più significativi e toccanti, senza stare a ordinarli tematicamente.
Da Fili d’erba: “In assenza / di / parole / mi / guardo /
intorno // Solo dolore”; “Dubito / che / io / esista”; “Abbozzato / Appena nato
/ Limitato / Cambiato / Invecchiato // ESSERE”; “Come / antenne / infinite /
dell’albero / i / rami / verso / il / cielo”; “Occhi / dell’alba /rosata //
Fili / d’erba / fra / le / rocce // Ragni / imbevuti / di / luce”; “A / sera /
un / grillo /canta / il / suo / inno / alla / vita”.
Da Dal profondo Sud: “Fiori che gridano / il loro dolore”; “Pare
la strada seguire le orme / di mille e più creature / intanto lontano / in un
punto sfocato / germoglia la vita i suoi caduchi fiori”; “Vico delle Giravolte
/ rifugio della speranza / se fra i tragici muri / ancora / lampeggia /sui
pallidi volti / precaria la vita”; “Realtà / è quell’onda che osservo / mobilissima
verità sommersa”; “Chiarore indistinto // Infinita notte // Si piegano alberi
urlanti // in oscuro tunnel // Solitario percorro una strada in salita”. Tre
fra le ultime poesie: Una barchetta, Don Chisciotte, Non si apprezza ciò che
non si conosce arrivano a tale forma di immedesimazione della persona del
pittore con la sua vicenda artistica, da diventare trasparenti metafore di lui,
o meglio di una sua condizione di spirito fra disperatamente pessimistica e
rassegnatamente rinunziataria. Varrebbe la pena, se vi fosse spazio, di
riportare intera la metaforica Don Chisciotte. Questo componimento,
apparentemente scherzoso, anzi giocoso, esprime invece apici di disperazione
miracolosamente autoironica, e contemporaneamente orgoglio di sé, artista pittore,
fin dalla scelta del personaggio allusivo: quel Don Chisciotte tragico insieme
e sublime entro il suo sogno ostinato di un suo Eden cavalleresco. Non meno
significante di Dal profondo Sud ritengo la anteriore esperienza di Apeiron
(1995), mostre e fascicoleto. Credo che proprio nei quattro anni intercorsi tra
i due scritti sia maturata la immedesimazione, cui prima ho accennato, del
pittore con la ricerca pittorica, quasi ricerchi anche se stesso nel rapporto
con l’arte e con gli ambienti dell’arte, o meglio immedesimi a se stesso l’arte
e gli ambienti dell’arte. E nel medesimo tempo si liberi del condizionamento
esercitato da questi ultimi, facendosene superiore.
Credo di non andare molto lontano dal vero, se ipotizzo che gli
stati di sconforto metaforizzatisi nella Barchetta, nel Don Chisciotte, nel Non
si apprezza si siano in grande misura alimentati in conseguenza
dell’apprezzamento dell’Apeiron nel giudizio entusiastico degli esperti. Cesare
ha denominato apeiron (indefinito, indeterminato) una fase, o meglio una guisa,
operativamente sperimentata, di quell’aspetto della sua ricerca critica che
verte sulla genesi della “forma” nell’arte.
C’è in tale intitolazione un elegante, cultamente appropriato,
forse anche compiaciuto, riferimento analogico al nome dato all’archè
(principio ed essenza informe di ogni realtà formata, che all’informe
ritornerà) dal filosofo presocratico Anassimandro, vissuto fra il settimo e il
sesto secolo a. C.
Le opere funzionali a tale sperimentazione (e che non per questo
cessavano di essere dipinti da esporre) furono in mostra a Lecce, Tricase,
Otranto nel detto anno 1995, naturalmente senza affiancamenti ad altre che fossero
vicine all’oggettivismo figurativo. La letteratura critica le ha salutate assai
favorevolmente, ma interpretando le mostre come prova di una pura e semplice
evoluzione dell’autore dallo stile figurativo all’informale e magari
all’astratto: una sorta di conversione definitiva alla casualità del segno e
della macchia. In sostanza un allinearsi (tardivo) ad una sorta di
modernizzazione stilistica.
Con il consueto garbo e con correttezza di costume, Cesare ha
riunito in un fascicoletto a stampa le interpretazioni dei critici. Lo ha
tuttavia intitolato Apeiron e chiuso con una sua brevissima autoesegesi. Nella quale (come
anche in citazioni di frasi non sue, che ha inserito fra riproduzioni di
immagini) non professa alcuna adesione all’informale o all’astratto, pur mentre riconosce gli
incrementi tecnici che ne ha ricavati: “Il mio lavoro”, scrive, “nasce quasi come
liberazione da ciò che per me è costrizione, artificio, schema precostituito.
Esso rappresenta un tentativo di realizzare un’immagine come evento naturale in
cui le “forme” crescono e si trasformano senza sforzo. Continua poi
riaffermando una concezione teleologica di pittura paesistica che non si
discosta da quella che ha enunciato nel 1971.
Ma quasi trent’anni di lavoro e di indagini tecniche sono venuti
progressivamente affinando: “Operando”, scrive, “una istintiva gestualità, in
cui armonizzano l’elemento naturale del caso e l’elemento umano del controllo,
vedo generarsi […] una trama arteriosa e metamorfica di segni colorati: materia
iridescente, attributo di u mondo incontaminato in continua evoluzione che
originandosi, espandendosi e ramificandosi registra un ritmo, un respiro, un
soffio vitale”.
Un passaggio, insomma, dall’informe anassimandreo alle forme,
attraverso le spinte, consonanti, dell’istintualità (casualità, spontaneità) e
dell’intelletto (riflessione, controllo razionale). E tali spinte si motivano
in funzione, artistica e gnomica a un tempo, dell’ideale, quanto si voglia
utopistico, di un ritorno edenico: la fase dell’apeiron non vuole essere che
una tappa della “lunga marcia” di Cesare nello scandaglio. Tappa costruttiva,
certo, e certo non ultimativa. Cesare ne è, e ne è sempre stato, tenacemente
convinto, anche se pause, dubbi, scoraggiamenti non gli siano mancati, né
amarezza per le incomprensioni. Si è però sempre risollevato, nella fiducia di
sé e del valore della sua arte. I due brani che seguono ai tre indicati, dello
sconforto, e che chiudono la raccolta poetica Dal profondo Sud, attestano
Cesare ben fuori dalla disperazione del Don Chisciotte. Non fuori da ogni
eventuale apertura a nuove ricerche, anzi fiducioso nella loro positività
maieutica. Sempre però rimanendo fermo il fine estetico-etico della ispirazione
che ne caratterizza personalità e stile. Un “attributo” della pittura
paesistica che la renda purificante dalla “contaminazione” attuale della natura
non avrebbe alcun senso, se dal paesaggio dipinto restasse esclusa la figura
umana. Né avrebbe senso affidare
all’arte valenze gnomiche, come è carattere di quella di Piscopo, e lo è stato
di quella di molti altri, con proprie differenziazioni ciascuno, fin da Platone
ed Aristotele. Che la figura umana non possa essere estromessa dalla figuralità
naturale, che anzi appunto la incombente presenza di essa contribuisca al
vigore della suggestività purificante, Piscopo lo ha pensato da sempre.
Numerosissimi sono i suoi dipinti con figure umane nel paesaggio, e abbondanti
quelli con preminenza delle figure.
Nel fascicolo di presentazione dell’Omaggio a Kokoschka
(Castrano, aprile 1998), lo ha esplicitamente affermato: “Nella mia recente
produzione pittorica si denota un ravvivato interesse per la figura umana e per
il paesaggio”. Ha anche riprodotto nella prima e quarta faccia di copertina ben
otto fra gli studi a penna preparativi del mirabile ritratto Dedicato a
Kokoschka. Ha di seguito precisato che “volti e corpi, dai tratti grotteschi e
caricaturali, rappresentano un’umanità primordiale desolata, vanamente alla
ricerca di equilibrio, di armonia, di perfezione”; e che ”i paesaggi evocano,
in un’atmosfera spesso cupa e drammatica, un senso di vuoto e di inquietudine
esistenziale”. Sono figurazioni che si direbbero più vicine allo stato d’animo
da cui è sgorgata l’analogia del Don Chisciotte, che alla generosità dello
impegno edenico. Quasi che nessun lievito, neppure nascosto, di speranza
edenica fosse operante. In altra pagina però del medesimo fascicolo Piscopo
spiega all’intervistatore che “gli spazi aurorali” di vari paesaggi “esprimono
la speranza di una convivenza più equilibrata ed armoniosa fra l’uomo e la
natura”, ribadisce, cioè, l’intenzione gnomico-catartica della sua produzione
paesistica. C’è incompatibilità fra le due posizioni? Oppure l’artista si
propone di ottenere esiti catartici tanto popolando il paesaggio di
trasfigurazioni – della natura e degli uomini – mostruose e repellenti, a
condanna del disastro ecologico in corso, quanto esibendo trasfigurazioni
paesistiche splendenti di bellezza, a nostalgia pungente del paradiso perduto?
Anche la satira, la caricatura, il grottesco, perfino il brutto può l’artista
esser capace di sublimarli in connotazione positiva di un messaggio. D’altronde
nessuna contraddizione comporta l’idea di ambivalenza così del mostruoso come
dell’idillico in funzione di un’unica finalità, bella o brutta, buona o cattiva
che sia. Nella pittura come in qualsiasi altra forma di umana attività. Anzi, e
ciò forse vale solamente per le arti, l’ambivalenza dei mezzi è ricchezza che
si apre alla scelta dell’estro e della professionalità dell’artista.
Non poco, io penso, della forza vera di Cesare Piscopo pittore,
e del pregio vero della sua produzione artistica sta nell’abbinamento di
coerenza ideale e flessibilità sperimentale. Ciò lo rende difficile da
inquadrare, quasi che abbia oltrepassato il presente, che ne abbia intuito, ne
viva, la caducità culturale e voglia che il dipinto la fissi, ma anche voglia
trovare una forma, nel medesimo dipinto, di comunicazione che oltrepassi la
caducità. E’ esigenza, appunto, “difficile”, ossimorica, strutturale all’utopia
edenica. La ispirazione poietica di Cesare Piscopo è robustamente sostanziata
di storia dell’arte pittorica. Cultura storica (dovrebbe essere superfluo
ricordarlo) è altra cosa da ripetizione passiva. Non toglie originalità alle
opere, ma le alimenta e irrobustisce proprio perché le storicizza, le colloca
durevolmente nel presente. Può avvenire nell’oggi che si giudichi “già vista”,
e dunque non originale, effimera, l’opera dell’artista nutrito di storia, ma
solo perché la si è guardata poco e male, con superficialità o, peggio, con
narcisistica infatuazione.
Primeggia in Piscopo lo studio della espressione in autori
contemporanei, quali Munch, Nolde, Ensor, Rouault, Kirchner, Kokoschka, Klee,
Giacometti, Dubuffet, Mirò, Jorn, de Kooning (ma anche i grandi paesisti
dell’impressionismo, non ultimo Van Gogh). Questo momento, infatti, della storia
pittorica (nel quale variamente vengono affrontati temi inerenti alla perdita
di identità dell’uomo di massa, alla precarietà dell’esistenza, alla violazione
della natura) intimamente consuona con la vocazione artistica di Cesare e con i
tormenti etico-sociali che la stimolano. Né, ovviamente, il bagaglio storico di
Cesare rimane sordo all’idealità di bellezza armoniosa dei Grandi
rinascimentali, né a quello di ingenuo stilizzato candore dei loro ugualmente
grandi predecessori, tanto più che questi respirano un “realismo apparente”, in
tanti aspetti non lontanissimo dall’odierno “primitivismo”. E il “realismo
apparente” (come pure il “non realismo” apparente), abbiamo già accennato, è
anche una dimensione non secondaria del linguaggio pittorico di Cesare.
Nella mostra che conta di organizzarsi nel prossimo febbraio,
pare che Cesare abbia deciso di affidare alla sola trasfigurazione
paesaggistica della natura quella efficacia catartica, che è insieme piacere
estetico ed educazione ad un futuro salvifico. E non è detto che nei dipinti
che esporrà egli non abbia conseguito livelli di suggestione espressiva che
superino, e non di poco, la “descrizione esteriore” degli oggetti. Né è detto
che con ciò non abbia nulla ottenuto della finalità, pur utopistica, che costantemente
si è andato si va proponendo, ed in ordine alla quale, esclusa ogni leziosità
ornamentale o descrittiva che rompa la stretta essenzialità compositiva, si
avvale di ogni materia e di ogni libertà capaci di alimentare convivenza
“pacifica” dell’uomo con l’ambiente naturale. Il “pacifica” è termine suo del
pittore Cesare Piscopo. Ma proprio di “pace” edenica, che la comparsa dell’uomo
nell’Eden ha rotto, cantò anche il poeta magliese morto giovane undici anni fa,
dileggiato dai benpensanti, Salvatore Toma. Ora lo si sta comprendendo e
rivalutando.
Ripeto, la “salita” di Cesare è sempre in itinere: “Solitario /
percorro / una strada in salita” (Dal profondo Sud, p.19). E ad un
intervistatore recente, che gli ha chiesto: “Come considera la sua arte?”, ha
risposto: “Come un albero le cui radici rappresentano la realtà, il fusto e i
rami la mia sensibilità, le foglie il prodotto artistico finale” (Omaggio a
Kokoschka). E chi non sa che le foglie, anche quelle cosiddette perenni, cadono
e si rinnovano? E non sente il poeta Piscopo “come / antenne / infinite / dell’albero / i rami / verso / il cielo”?
(Fili d’erba, p.19).
Tratto da: Nicola G. De Donno, Nota breve sulla ricerca
pittorica e la utopia edenica di Cesare Piscopo; Editrice Salentina,
Galatina - 1999.
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