domenica 29 gennaio 2012

Nicola G. De Donno. Nota sulla ricerca pittorica di Cesare Piscopo



Nell’occasione della prossima mostra di suoi dipinti paesistici, provo a delineare, in Cesare Piscopo, la complessa personalità dell’artista, attingendo a sue attestazioni (le teoretiche e le creative) che riguardano l’arte. Tra le componenti che motivano i dipinti, la ricerca teoretica è intervenuta di conserva con l’estro espressivo. Lo assilla da almeno un trentennio. Si rilegga la dichiarazione di poetica figurativa, che ha premesso alla mostra leccese di sedici paesaggi nel marzo del 1971 (Galleria Elicona). In quella, Cesare, allora ventiquattrenne, già teorizzava “la natura come […] sensibile alle inquietudini umane”, ed “in comunicazione con l’artista”, il quale, “spinto da forze misteriose”, la invita “a partecipare al suo intimo dramma esistenziale”. Sicché “il paesaggio acquista valore di presenza che incombe su di noi col suo magico potere fascinatorio”. Dunque, l’artista nel dipinto deve tentare “il passaggio” da “una descrizione esteriore (…) alla presentazione di una visione allucinata attraverso un gioco di segreti accordi ritmici”. Al di là della romantica e rischiosa competizione con ineffabilità misteriose – “magico”, “fascinatorio”, “allucinata”, e degli inconvenienti insiti in quelle, resta valida, e basilare nel pensiero di Piscopo, la convinzione di una esistente nascosta consonanza vitale fra la natura e l’uomo (simboleggiandosi tuttavia la natura in “paesaggio” e l’uomo in “artista”). Consonanza nella quale ruolo positivo esercita “l’alito di vita” della natura, ruolo negativo, di rottura, il “dramma esistenziale” dell’uomo. La radice di una tale visione è riconoscibile nel mito suggestivo del paradiso perduto e della collegata utopia di una fattibile ricomposizione dell’Eden con la felicità sua: mito e utopia largamente diffusi nella cultura occidentale (non la popolare solamente) ebraico-cristiana. Aver attinto a questa nobile fonte culturale una giustificazione teorica, che non solamente risponde al suo personale anelito, ma è nel contempo capace di presa universale e socialmente, eticamente, pregnante, è indice di ispirazione artistica ambiziosa e totale. Ma comporta di fatto una ricerca tecnica incontentabilmente ansiosa di perfezionare la trasfigurazione naturalistica ed umana. Tanto da poter generare prostrazioni accanto agli entusiasmi.
Insegue infatti il conseguimento di una resa pittorica, in cui ispirazione immediata e mediato controllo intellettivo, così della componemte segnica come della cromatica, appaiono compenetrarsi spontaneamente, da ispirazione, quasi per sintesi a priori, pur essendo tale armonia un risultato di intenzionalità elaborative gnomicamente finalizzate. Credo che tale esigenza esprima il “gioco di segreti accordi ritmici” indicato da Piscopo giovane nel 1971.
Tale esplicato concetto organico della sua pittura personalizza, con un suo caratteristico lirismo, la collocazione di Cesare Piscopo entro il variopinto panorama di sperimentazione degli stili che ha caratterizzato riccamente le arti figurative contemporanee, a partire in sostanza dal simbolismo letterario, e fino a giungere al rifiuto e distruzione della figura. Tale ricchezza di stili è in parte non piccola legabile alla precarietà esistenziale, che il tumultuoso processo delle scienze e delle tecniche, e purtroppo i conseguiti squilibri etnici ed economici su orizzonte globale, hanno portato e continuano a portare con sé. Come tante altre guise correntistiche nel risvolto formale, questo malessere sociale influisce nel risvolto contenutistico della pittura di Piscopo, non meno che in quella di maestri che lo hanno preceduto. Non poteva non influire. Ma non la rende imitazione piatta. In particolare, è tipica di Piscopo la compenetrazione ossimorica (l’ossimoro compare in più di un risvolto dell’arte di lui) di angoscia e speranza, che nelle opere migliori chiaramente ne marca il lirismo. Il disagio, sempre più allargantesi su scala mondiale, impegna la sensibilità non solamente etica, ma anche estetica dell’artista. E produce, accanto all’intento gnomico e all’emotivo, quello tecnico di poter ottenere, dalla trasfigurazione del dipinto, una duplicazione, pur questa ossimorica, della suggestività di una realtà paesistica, che venga colta non solo nel momento che si fissa, ma anche nell’inesauribile suo fluire. Quanto all’aspetto gnomico, non è fuor di luogo rammemorare che nella prima metà del nostro secolo, ed anche più in qua, esercitava influenza semiegemonica nel pensiero estetico, non solamente italiano, l’idea crociana della bellezza artistica come valore per sua essenza autonomo, “distinto” da qualsiasi forma di condizionamento pratico: arte per l’arte, liricità pura, eticità della bellezza estetica di per sé, in quanto bellezza estetica. Correnti pittoriche, quali l’astrattismo, si sono generate in misura notevole sotto l’ombrello della dottrina estetica dell’arte per l’arte. La catarsi (mi si passi l’estensione del termine) etica, associata da Cesare Piscopo alla sua pittura in funzione edenica, esclude che egli potesse ripudiare in soluzione definitiva (come altri, si vedrà, hanno ritenuto) la maniera figurativa dal suo stile, e convertirsi all’astratto. Anche in ciò si può intravedere una caratterizzazione personale.
L’aspirazione edenica comporta, di per sé, non appagamenti agevoli, ma incontentabilità di scavo, così della realtà come della tecnica compositiva, in rapporto all’immagine di quella che si vuole trasfigurare. Il travaglio della ricerca non è stato finora breve, e continuerà, credo, quanto continuerà per Piscopo il dipingere, cioè tutta la vita. Egli non ha mai sostato nella produzione ed esposizione di disegni e dipinti su carte e su tele, con gli strumenti, gli esperimenti e le invenzioni più vari; mai non dico eludendo, ma attenuando il dovere di scavo migliorativo all’interno della sua iniziale concezione della pittura, e il dovere di coerenza e sincerità con se stesso. Lo scavo critico ha fatto a meno, per più di un ventennio, di esternazioni a mezzo stampa, teoriche: ha preferito l’operatività feconda e silenziosa della prova e della verifica attraverso il linguaggio della matita e del pennello.
Alla parola Cesare è tornato nei primi anni novanta, col linguaggio della poesia. Io non so se aveva prima scritto poesie, come a molti succede già da adolescenti. So invece che ha obbedito all’impulso di pubblicarne non prima della metà degli anni Novanta. Quando cioè ha sentito di aver raggiunto un certo livello o condizione di maturità nell’analisi estetica della sua pittura e con ciò quasi un’impellente consapevolezza di carenze strutturali della espressione solamente visiva. Rilevo che la novità si verifica negli anni dell’esplicato apeiron (sebbene la presenza di “tracce significative di alcuni aspetti della pittura informale e di certo surrealismo” egli abbia segnalato che già comparivano nei suoi dipinti, fin dal ’71). E’ pur vero che i caratteri del linguaggio pittorico, segno e colore, sono, per così dire, liricamente più statici della parola. Sicché l’erompere del verso potrà anche ricondursi a semplice evento semantico. La contemporaneità di Apeiron è però un fatto, e un fatto è che poesia e pittura di Cesare Piscopo si sono reciprocamente integrate nella comunicazione artistica di lui, oggettivamente e soggettivamente. E appare ciò una riprova del fenomeno, già accennato e su cui tornerò, di progressiva immedesimazione dell’artista sincero con la sua arte.
Perciò mi appare fortemente sintomatico, che tappe e caratteri dell’approfondimento tecnico ed estetico (rimasto silenzioso sul piano delle enunciazioni verbali) abbiano trovato sostegno espressivo nella poesia. Sintomatico di una crescita complessiva e complessa dell’artista. I saggi poetici di Cesare Piscopo sono due.
Uno è datato 1996, l’altro 1998 (Panico editore, Galatina). Ma sono le date editoriali, non quelle della composizione dei singoli testi. I contenuti dei quali spesso riflettono gli stati d’animo dell’autore. Questi appaiono meno frequenti ed intensi nella prima raccolta: Fili d’erba; assai più frequenti ed intensi nella seconda: Dal profondo Sud. Ovviamente interessano molto la presente indagine, che riguarda lui e la sua pittura. (Non il valore letterario dei versi, che tuttavia non difettano affatto di illuminazioni stilistiche, inventiva analogica, vigore semantico).
Vi traspaiono dubbi e sconforti al punto da investire idee filosofiche quali esistenza, realtà, verità, essere; ma anche coscienza della validità dello scavo critico condotto e dei suoi esiti, insieme a speranze, ambizioni, tenacia a superare i pur ritornanti pessimismi e amarezze. A documento di tutto questo estraggo dai due volumetti una sommaria antologia dei momenti più significativi e toccanti, senza stare a ordinarli tematicamente.
Da Fili d’erba: “In assenza / di / parole / mi / guardo / intorno // Solo dolore”; “Dubito / che / io / esista”; “Abbozzato / Appena nato / Limitato / Cambiato / Invecchiato // ESSERE”; “Come / antenne / infinite / dell’albero / i / rami / verso / il / cielo”; “Occhi / dell’alba /rosata // Fili / d’erba / fra / le / rocce // Ragni / imbevuti / di / luce”; “A / sera / un / grillo /canta / il / suo / inno / alla / vita”.
Da Dal profondo Sud: “Fiori che gridano / il loro dolore”; “Pare la strada seguire le orme / di mille e più creature / intanto lontano / in un punto sfocato / germoglia la vita i suoi caduchi fiori”; “Vico delle Giravolte / rifugio della speranza / se fra i tragici muri / ancora / lampeggia /sui pallidi volti / precaria la vita”; “Realtà / è quell’onda che osservo / mobilissima verità sommersa”; “Chiarore indistinto // Infinita notte // Si piegano alberi urlanti // in oscuro tunnel // Solitario percorro una strada in salita”. Tre fra le ultime poesie: Una barchetta, Don Chisciotte, Non si apprezza ciò che non si conosce arrivano a tale forma di immedesimazione della persona del pittore con la sua vicenda artistica, da diventare trasparenti metafore di lui, o meglio di una sua condizione di spirito fra disperatamente pessimistica e rassegnatamente rinunziataria. Varrebbe la pena, se vi fosse spazio, di riportare intera la metaforica Don Chisciotte. Questo componimento, apparentemente scherzoso, anzi giocoso, esprime invece apici di disperazione miracolosamente autoironica, e contemporaneamente orgoglio di sé, artista pittore, fin dalla scelta del personaggio allusivo: quel Don Chisciotte tragico insieme e sublime entro il suo sogno ostinato di un suo Eden cavalleresco. Non meno significante di Dal profondo Sud ritengo la anteriore esperienza di Apeiron (1995), mostre e fascicoleto. Credo che proprio nei quattro anni intercorsi tra i due scritti sia maturata la immedesimazione, cui prima ho accennato, del pittore con la ricerca pittorica, quasi ricerchi anche se stesso nel rapporto con l’arte e con gli ambienti dell’arte, o meglio immedesimi a se stesso l’arte e gli ambienti dell’arte. E nel medesimo tempo si liberi del condizionamento esercitato da questi ultimi, facendosene superiore.
Credo di non andare molto lontano dal vero, se ipotizzo che gli stati di sconforto metaforizzatisi nella Barchetta, nel Don Chisciotte, nel Non si apprezza si siano in grande misura alimentati in conseguenza dell’apprezzamento dell’Apeiron nel giudizio entusiastico degli esperti. Cesare ha denominato apeiron (indefinito, indeterminato) una fase, o meglio una guisa, operativamente sperimentata, di quell’aspetto della sua ricerca critica che verte sulla genesi della “forma” nell’arte.
C’è in tale intitolazione un elegante, cultamente appropriato, forse anche compiaciuto, riferimento analogico al nome dato all’archè (principio ed essenza informe di ogni realtà formata, che all’informe ritornerà) dal filosofo presocratico Anassimandro, vissuto fra il settimo e il sesto secolo a. C.
Le opere funzionali a tale sperimentazione (e che non per questo cessavano di essere dipinti da esporre) furono in mostra a Lecce, Tricase, Otranto nel detto anno 1995, naturalmente senza affiancamenti ad altre che fossero vicine all’oggettivismo figurativo. La letteratura critica le ha salutate assai favorevolmente, ma interpretando le mostre come prova di una pura e semplice evoluzione dell’autore dallo stile figurativo all’informale e magari all’astratto: una sorta di conversione definitiva alla casualità del segno e della macchia. In sostanza un allinearsi (tardivo) ad una sorta di modernizzazione stilistica.
Con il consueto garbo e con correttezza di costume, Cesare ha riunito in un fascicoletto a stampa le interpretazioni dei critici. Lo ha tuttavia intitolato Apeiron e chiuso con una sua brevissima autoesegesi. Nella quale (come anche in citazioni di frasi non sue, che ha inserito fra riproduzioni di immagini) non professa alcuna adesione all’informale o all’astratto, pur mentre riconosce gli incrementi tecnici che ne ha ricavati: “Il mio lavoro”, scrive, “nasce quasi come liberazione da ciò che per me è costrizione, artificio, schema precostituito. Esso rappresenta un tentativo di realizzare un’immagine come evento naturale in cui le “forme” crescono e si trasformano senza sforzo. Continua poi riaffermando una concezione teleologica di pittura paesistica che non si discosta da quella che ha enunciato nel 1971.
Ma quasi trent’anni di lavoro e di indagini tecniche sono venuti progressivamente affinando: “Operando”, scrive, “una istintiva gestualità, in cui armonizzano l’elemento naturale del caso e l’elemento umano del controllo, vedo generarsi […] una trama arteriosa e metamorfica di segni colorati: materia iridescente, attributo di u mondo incontaminato in continua evoluzione che originandosi, espandendosi e ramificandosi registra un ritmo, un respiro, un soffio vitale”.
Un passaggio, insomma, dall’informe anassimandreo alle forme, attraverso le spinte, consonanti, dell’istintualità (casualità, spontaneità) e dell’intelletto (riflessione, controllo razionale). E tali spinte si motivano in funzione, artistica e gnomica a un tempo, dell’ideale, quanto si voglia utopistico, di un ritorno edenico: la fase dell’apeiron non vuole essere che una tappa della “lunga marcia” di Cesare nello scandaglio. Tappa costruttiva, certo, e certo non ultimativa. Cesare ne è, e ne è sempre stato, tenacemente convinto, anche se pause, dubbi, scoraggiamenti non gli siano mancati, né amarezza per le incomprensioni. Si è però sempre risollevato, nella fiducia di sé e del valore della sua arte. I due brani che seguono ai tre indicati, dello sconforto, e che chiudono la raccolta poetica Dal profondo Sud, attestano Cesare ben fuori dalla disperazione del Don Chisciotte. Non fuori da ogni eventuale apertura a nuove ricerche, anzi fiducioso nella loro positività maieutica. Sempre però rimanendo fermo il fine estetico-etico della ispirazione che ne caratterizza personalità e stile. Un “attributo” della pittura paesistica che la renda purificante dalla “contaminazione” attuale della natura non avrebbe alcun senso, se dal paesaggio dipinto restasse esclusa la figura umana. Né avrebbe  senso affidare all’arte valenze gnomiche, come è carattere di quella di Piscopo, e lo è stato di quella di molti altri, con proprie differenziazioni ciascuno, fin da Platone ed Aristotele. Che la figura umana non possa essere estromessa dalla figuralità naturale, che anzi appunto la incombente presenza di essa contribuisca al vigore della suggestività purificante, Piscopo lo ha pensato da sempre. Numerosissimi sono i suoi dipinti con figure umane nel paesaggio, e abbondanti quelli con preminenza delle figure.
Nel fascicolo di presentazione dell’Omaggio a Kokoschka (Castrano, aprile 1998), lo ha esplicitamente affermato: “Nella mia recente produzione pittorica si denota un ravvivato interesse per la figura umana e per il paesaggio”. Ha anche riprodotto nella prima e quarta faccia di copertina ben otto fra gli studi a penna preparativi del mirabile ritratto Dedicato a Kokoschka. Ha di seguito precisato che “volti e corpi, dai tratti grotteschi e caricaturali, rappresentano un’umanità primordiale desolata, vanamente alla ricerca di equilibrio, di armonia, di perfezione”; e che ”i paesaggi evocano, in un’atmosfera spesso cupa e drammatica, un senso di vuoto e di inquietudine esistenziale”. Sono figurazioni che si direbbero più vicine allo stato d’animo da cui è sgorgata l’analogia del Don Chisciotte, che alla generosità dello impegno edenico. Quasi che nessun lievito, neppure nascosto, di speranza edenica fosse operante. In altra pagina però del medesimo fascicolo Piscopo spiega all’intervistatore che “gli spazi aurorali” di vari paesaggi “esprimono la speranza di una convivenza più equilibrata ed armoniosa fra l’uomo e la natura”, ribadisce, cioè, l’intenzione gnomico-catartica della sua produzione paesistica. C’è incompatibilità fra le due posizioni? Oppure l’artista si propone di ottenere esiti catartici tanto popolando il paesaggio di trasfigurazioni – della natura e degli uomini – mostruose e repellenti, a condanna del disastro ecologico in corso, quanto esibendo trasfigurazioni paesistiche splendenti di bellezza, a nostalgia pungente del paradiso perduto? Anche la satira, la caricatura, il grottesco, perfino il brutto può l’artista esser capace di sublimarli in connotazione positiva di un messaggio. D’altronde nessuna contraddizione comporta l’idea di ambivalenza così del mostruoso come dell’idillico in funzione di un’unica finalità, bella o brutta, buona o cattiva che sia. Nella pittura come in qualsiasi altra forma di umana attività. Anzi, e ciò forse vale solamente per le arti, l’ambivalenza dei mezzi è ricchezza che si apre alla scelta dell’estro e della professionalità dell’artista.
Non poco, io penso, della forza vera di Cesare Piscopo pittore, e del pregio vero della sua produzione artistica sta nell’abbinamento di coerenza ideale e flessibilità sperimentale. Ciò lo rende difficile da inquadrare, quasi che abbia oltrepassato il presente, che ne abbia intuito, ne viva, la caducità culturale e voglia che il dipinto la fissi, ma anche voglia trovare una forma, nel medesimo dipinto, di comunicazione che oltrepassi la caducità. E’ esigenza, appunto, “difficile”, ossimorica, strutturale all’utopia edenica. La ispirazione poietica di Cesare Piscopo è robustamente sostanziata di storia dell’arte pittorica. Cultura storica (dovrebbe essere superfluo ricordarlo) è altra cosa da ripetizione passiva. Non toglie originalità alle opere, ma le alimenta e irrobustisce proprio perché le storicizza, le colloca durevolmente nel presente. Può avvenire nell’oggi che si giudichi “già vista”, e dunque non originale, effimera, l’opera dell’artista nutrito di storia, ma solo perché la si è guardata poco e male, con superficialità o, peggio, con narcisistica infatuazione.
Primeggia in Piscopo lo studio della espressione in autori contemporanei, quali Munch, Nolde, Ensor, Rouault, Kirchner, Kokoschka, Klee, Giacometti, Dubuffet, Mirò, Jorn, de Kooning (ma anche i grandi paesisti dell’impressionismo, non ultimo Van Gogh). Questo momento, infatti, della storia pittorica (nel quale variamente vengono affrontati temi inerenti alla perdita di identità dell’uomo di massa, alla precarietà dell’esistenza, alla violazione della natura) intimamente consuona con la vocazione artistica di Cesare e con i tormenti etico-sociali che la stimolano. Né, ovviamente, il bagaglio storico di Cesare rimane sordo all’idealità di bellezza armoniosa dei Grandi rinascimentali, né a quello di ingenuo stilizzato candore dei loro ugualmente grandi predecessori, tanto più che questi respirano un “realismo apparente”, in tanti aspetti non lontanissimo dall’odierno “primitivismo”. E il “realismo apparente” (come pure il “non realismo” apparente), abbiamo già accennato, è anche una dimensione non secondaria del linguaggio pittorico di Cesare.
Nella mostra che conta di organizzarsi nel prossimo febbraio, pare che Cesare abbia deciso di affidare alla sola trasfigurazione paesaggistica della natura quella efficacia catartica, che è insieme piacere estetico ed educazione ad un futuro salvifico. E non è detto che nei dipinti che esporrà egli non abbia conseguito livelli di suggestione espressiva che superino, e non di poco, la “descrizione esteriore” degli oggetti. Né è detto che con ciò non abbia nulla ottenuto della finalità, pur utopistica, che costantemente si è andato si va proponendo, ed in ordine alla quale, esclusa ogni leziosità ornamentale o descrittiva che rompa la stretta essenzialità compositiva, si avvale di ogni materia e di ogni libertà capaci di alimentare convivenza “pacifica” dell’uomo con l’ambiente naturale. Il “pacifica” è termine suo del pittore Cesare Piscopo. Ma proprio di “pace” edenica, che la comparsa dell’uomo nell’Eden ha rotto, cantò anche il poeta magliese morto giovane undici anni fa, dileggiato dai benpensanti, Salvatore Toma. Ora lo si sta comprendendo e rivalutando.
Ripeto, la “salita” di Cesare è sempre in itinere: “Solitario / percorro / una strada in salita” (Dal profondo Sud, p.19). E ad un intervistatore recente, che gli ha chiesto: “Come considera la sua arte?”, ha risposto: “Come un albero le cui radici rappresentano la realtà, il fusto e i rami la mia sensibilità, le foglie il prodotto artistico finale” (Omaggio a Kokoschka). E chi non sa che le foglie, anche quelle cosiddette perenni, cadono e si rinnovano? E non sente il poeta Piscopo “come / antenne / infinite / dell’albero / i rami / verso / il cielo”? (Fili d’erba, p.19).

 Tratto da: Nicola G. De Donno, Nota breve sulla ricerca pittorica e la utopia edenica di Cesare Piscopo; Editrice Salentina, Galatina - 1999.






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