martedì 7 febbraio 2012

Giancarlo Vallone. L'esperienza grafica di Cesare Piscopo





Ho esaminato con estremo interesse la nuova esperienza grafica di Cesare Piscopo, affidata ad una serie di carte inchiostrate da multiformi gradazioni di colore che si espandono senza disegno preordinato. La casualità della espansione degli inchiostri è però bloccata o pilotata fino al raggiungimento di una forma significante, e dunque di una cifra della realtà essenzialmente psichica, capace forse di ambientarsi logicamente, cioè nell’interpretazione, agli ideogrammi orientali o ad ancestrali pittogrammi, ma senza, mi pare, vera vocazione simbolica; di forza insomma, quasi esclusivamente individuale, ma temperata, almeno spesso, da una canalizzazione (prescelta, precostituita) dall’uso di tonalità di colore delicate e degradanti. Questo lirismo di Piscopo ha dunque, come sempre, funzione educativa; presiede, allevia, medica il conflitto delle pulsioni. Indica, inoltre, più in profondità, la nuova grafica di Piscopo e il rifiuto, così evidente, del figurativo (già imminente in alcune descrizioni della costa salentina e nelle figure umane): è, mi pare, nell’individuazione del colore che viene risolto, almeno in questa fase di ricerca, il problema, dirò così, dell’essere della forma. Il colore diviene una specie di sonda “ontica” (evito di dire “ontologica”) in modo certo più audace, benché non isolato, di quanti seguono la STESSA VIA poggiando più comodamente su una progressiva rarefazione del figurativo. Viene meno la connessione classica in pittura tra forma, oggetto e colore.
Finchè la forma fu legata all’oggetto, al reale, finchè fu “vera”, le ragioni del colore erano del tutto iscritte in tale relazione di identità. Fu poi proprio al colore e alle ricerche su di esso che spettò il compito di segnare le “scansioni” del “moderno” e la progressiva perdita di valore, nella forma, dell’oggetto, lungo appunto le variazioni della cifra colorica. Ora sembra, e non solo in Piscopo, che spetti al colore di assorbire nel suo apparire grafico ogni capacità genetica dell’essere formale; cioè delle forme in quanto capaci e matrici d’essere. Questa sorta di neotomismo d’avanguardia (“forma est quae dat esse rei”) non cade, con Piscopo, nel puramente casuale (che non significa non figurativo) né nel puramente informale: concetto questo che nel porre il problema della sua esistenza anche solo visiva, non ha d’altra parte mai significato assenza di forme. Piuttosto ha indicato la questione (sostanzialmente linguistica) della forma delle non forme (veristiche) o, semplicemente, della forma delle forme (grafiche). L’esperienza di Piscopo, tuttavia, non sembra ancora pienamente strutturale o linguistica; non pare dotata di semantica veramente autonoma o interna. La sua ricerca è, ancora, una domanda sull’essere; è, forse, una nostalgia dell’essere esplosa oltre il figurativo, e nella sua mancanza.

Giancarlo Vallone  (1995)





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