Ho esaminato con estremo interesse la
nuova esperienza grafica di Cesare Piscopo, affidata ad una serie di carte
inchiostrate da multiformi gradazioni di colore che si espandono senza disegno
preordinato. La casualità della espansione degli inchiostri è però bloccata o
pilotata fino al raggiungimento di una forma significante, e dunque di una
cifra della realtà essenzialmente psichica, capace forse di ambientarsi
logicamente, cioè nell’interpretazione, agli ideogrammi orientali o ad
ancestrali pittogrammi, ma senza, mi pare, vera vocazione simbolica; di forza
insomma, quasi esclusivamente individuale, ma temperata, almeno spesso, da una
canalizzazione (prescelta, precostituita) dall’uso di tonalità di colore
delicate e degradanti. Questo lirismo di Piscopo ha dunque, come sempre,
funzione educativa; presiede, allevia, medica il conflitto delle pulsioni.
Indica, inoltre, più in profondità, la nuova grafica di Piscopo e il rifiuto,
così evidente, del figurativo (già imminente in alcune descrizioni della costa
salentina e nelle figure umane): è, mi pare, nell’individuazione del colore che
viene risolto, almeno in questa fase di ricerca, il problema, dirò così, dell’essere
della forma. Il colore diviene una specie di sonda “ontica” (evito di dire “ontologica”)
in modo certo più audace, benché non isolato, di quanti seguono la STESSA VIA
poggiando più comodamente su una progressiva rarefazione del figurativo. Viene
meno la connessione classica in pittura tra forma, oggetto e colore.
Finchè la
forma fu legata all’oggetto, al reale, finchè fu “vera”, le ragioni del colore
erano del tutto iscritte in tale relazione di identità. Fu poi proprio al
colore e alle ricerche su di esso che spettò il compito di segnare le “scansioni”
del “moderno” e la progressiva perdita di valore, nella forma, dell’oggetto,
lungo appunto le variazioni della cifra colorica. Ora sembra, e non solo in
Piscopo, che spetti al colore di assorbire nel suo apparire grafico ogni
capacità genetica dell’essere formale; cioè delle forme in quanto capaci e
matrici d’essere. Questa sorta di neotomismo d’avanguardia (“forma est quae dat
esse rei”) non cade, con Piscopo, nel puramente casuale (che non significa non
figurativo) né nel puramente informale: concetto questo che nel porre il
problema della sua esistenza anche solo visiva, non ha d’altra parte mai
significato assenza di forme. Piuttosto ha indicato la questione
(sostanzialmente linguistica) della forma delle non forme (veristiche) o,
semplicemente, della forma delle forme (grafiche). L’esperienza di Piscopo,
tuttavia, non sembra ancora pienamente strutturale o linguistica; non pare dotata
di semantica veramente autonoma o interna. La sua ricerca è, ancora, una
domanda sull’essere; è, forse, una nostalgia dell’essere esplosa oltre il
figurativo, e nella sua mancanza.
Giancarlo Vallone (1995)
Nessun commento:
Posta un commento