mercoledì 27 febbraio 2013

Marina Pizzarelli. La Raccolta Giannelli di Parabita



E’ una storia bella e insolita quella del Museo Giannelli di Parabita, istituito nel lontano 1924 per volontà e generosità di Enrico Giannelli, pittore, studioso d’arte e di numismatica, collezionista: bella e insolita perché nasce da una grande passione e dal nobile desiderio di farne partecipe il prossimo; perché supera l’interesse materiale, il pur legittimo senso del possesso personale, per rendere pubblico un bene raccolto in lunghi anni di amorevole ricerca; perché capace, infine, di dare l’avvio ad un processo di sensibilizzazione e condivisione di quell’idea. Ed è una storia che sorprende non solo per le ragioni su elencate, ma per la scoperta di una realtà inaspettata in un luogo marginale ed in un momento storico poco propizio alle aperture culturali, quando l’Italietta post-risorgimentale si affacciava al nuovo secolo. Che ci fosse nel codice genetico di Enrico Giannelli e nella sua formazione una predisposizione verso ideali di rinnovamento e apertura sociale che confluiscono in una visione culturale illuminata, trova conferma nella sua ascendenza familiare. Suo padre, Andrea Giannelli (1821/1921), medico e patriota, aveva lottato per la causa risorgimentale combattendo volontario nella I Guerra di Indipendenza, era stato perseguitato dalla polizia borbonica e infine esiliato nello Stato Pontificio. Ritornato nel Salento, aveva sposato donna Agnese Ferrari dei duchi di Parabita, da cui il 30 settembre 1854, ad Alezio, era nato Enrico.
Avviato agli studi classici presso il liceo ginnasio Capece di Maglie, il giovane Giannelli vi incontra come professore Paolo Emilio Stasi, artista di formazione napoletana alla scuola di Giuseppe Mancinelli. Insegnante dotato di profondo intuito (sarà responsabile dell’educazione dei più giovani Giuseppe Casciaro e Michele Palumbo), Stasi indirizza il suo allievo verso gli studi artistici che puntualmente avverranno nell’Istituto di Belle Arti di Napoli, sotto la guida del paesaggista Gabriele Smargiassi, seguace della scuola di Posillipo (1874).
Ha inizio così per Enrico Giannelli un soggiorno napoletano all’incirca trentennale caratterizzato, dopo il diploma e l’abilitazione, dall’insegnamento di disegno nella Reale Scuola Superiore di Agricoltura a Portici (1882/1896) e dall’incarico di segretario della Promotrice di Belle Arti “Salvator Rosa” a Napoli (1904/1911). Intreccia in questo periodo una rete di frequentazioni nell’ambiente artistico-culturale locale, importante per la formazione di quelle competenze che utilizzerà nella sua pittura e nelle scelte per la collezione di quadri e sculture che andava formando.
Si delinea così quell’identità particolare e composita di Giannelli: nobiluomo di provincia e insieme personaggio di larghe vedute, capace organizzatore e animatore culturale; raffinato studioso e artista di sapiente mestiere; generoso divulgatore della sua collezione e orgoglioso custode di un nome che volle per sempre legato ad essa. Forte di un patrimonio di preziose esperienze, Enrico Giannelli è pronto, ritornato a Parabita, ad investire nella sua terra. Convinto sostenitore della necessità di decentrare le istituzioni di formazione artistica, fonda nel 1908 la “Scuola serale di disegno applicato alle arti”, di cui sarà direttore, primo nucleo dell’attuale Istituto Statale d’Arte a lui meritatamente intitolato. Da lì usciranno schiere di artisti-artigiani la cui bravura e finezza tecnica ha lasciato il segno nell’arredo pubblico e privato della città. Nel 1916 pubblica il volume Artisti napoletani viventi, pittori, scultori ed architetti, dove confluiscono tutte le preziose conoscenze di cui è depositario. Esperto di numismatica, è autore dei Disegni a penna di monete dei Re di Napoli e di Sicilia, premiato con diploma d’onore.
E’ del 1922 il primo documento di donazione al Comune di Parabita della Collezione di quadri e sculture denominata Raccolta di opere d’arte “Enrico Giannelli”, che si concretizzerà il 23 luglio 1924 con atto del notaio Giorgio Motta, durante l’amministrazione del sindaco Giuseppe Vinci. A questa prima donazione segue nel 1941 quella della biblioteca di libri d’arte e di numismatica, insieme ad una raccolta di disegni dell’Artista e della moglie Teresa Astarita, diplomi, certificati e fotografie. Fino alla morte, nel 1945, Giannelli si occupa personalmente di questa sua creatura, collocata provvisoriamente dapprima nella scuola elementare, poi, fino al 1917, nell’Istituto d’Arte.
Oggi la collezione Giannelli trova finalmente un’adeguata sistemazione nell’elegante Palazzo Ferrari, di recente restaurato, coniugando così i due nomi della famiglia e rispondendo alle più profonde aspirazioni del generoso donatore.
Costituita nella sua parte più importante da quarantatre quadri e dieci sculture di scuola napoletana tra Otto e Novecento, la raccolta Giannelli rappresenta una piccola preziosa testimonianza (ed unica nel Salento) della temperie artistica di un’epoca che vide, per la Puglia, l’indiscutibile egemonia culturale partenopea.
Mentre di solito i lasciti di artisti o di loro eredi sono formati esclusivamente da opere del donatore (vedi, per i musei pugliesi, le collezioni Filippo Cifariello, Damasco Bianchi, Enrico Castellaneta per la Pinacoteca di Bari, Giuseppe De Nittis per Barletta), la raccolta di Parabita, oltre a comprendere un corpus di tredici opere del titolare, propone una campionatura della migliore produzione artistica del tempo. Le scelte di Giannelli, al di là delle mode, sono indicative di un gusto sicuro, sostenuto da competenza e sensibilità e determinato probabilmente anche da relazioni personali. Così farebbe pensare la presenza di alcune dediche e di ben otto opere di Giuseppe Costa, cui vennero commissionati cinque ritratti di famiglia, tranne quello dello stesso Enrico Giannelli, opera di Vincenzo Caprile.
Lo spazio più ampio viene riservato alla pittura di paesaggio, che tra gli altri annovera un delicato pastello del 1906 di Giuseppe Casciaro, rivelando così le più spiccate preferenze di Giannelli, Egli stesso sensibile e delicato interprete del paesaggio napoletano e, ne Il Capo di Leuca dalla marina di Castro, di quello salentino. Al di là di ogni interesse descrittivo, queste opere sembrano dare forma e colore oltre che alle infinite modulazioni della luce e dell’atmosfera, a pensieri ed emozioni profonde: veri paesaggi dell’anima.

Marina Pizzarelli 


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domenica 24 febbraio 2013

Giorgio Barba. Cesare Piscopo e le pulsioni dell'anima





Un quadro è un frammento visibile dell’anima, un pezzo irregolare di specchio che riflette in modo parziale e sfumato i sentimenti che non prendono forma e consistenza, ma restano vaghi e indefiniti, aleatori e casuali. Quando un artista si mette davanti ad una superficie pittorica, ha di fronte a sé una dimensione vuota, che risucchia in maniera centripeta la luce e il buio, la materia e l’antimateria. L'abilità dell’artista sta proprio nell’invertire la forza di attrazione e nel fare uscire dalla tela o dalla carta l’invisibile, l’innominabile, l’inconoscibile, ricorrendo ad una forza centrifuga che materializzi i sentimenti e dia sostanza alle immagini proteiformi che vagano nell’inconscio alla ricerca di una identità, mediante un processo che arreca tormento ed estasi, gioia e dolore, delusione e felicità.
Ed è con questo stato d’animo che Cesare Piscopo, nella sua più recente produzione pittorica, affronta la marea bianca della carta (o della tela) e da essa trae figure come in sogno, figure in attesa, pronte a venir fuori dalla grezza materia, a prendere colore e a urlare la loro disperazione. Emblematica a questo proposito una sua poesia, Attesa, tratta dalla recente pubblicazione Dal profondo Sud:

Ombre in fuga verso il paese

Volti di pietra
plasmati dal sole

Fiori che gridano
Il loro dolore

Come non riconoscere in questi versi l’arte di Cesare Piscopo? Infatti i visi delle donne dipinti dall’artista sembrano scavati nella pietra, tormentati e angosciati da paure ancestrali e dal timore di un futuro privo di umanità e dominato dal caos dell’incertezza e della bestialità. In quei volti e in quei corpi si possono percepire le pulsioni dell’anima e le inquietudini oscure della mente. Molteplici sentimenti si accumulano per dare vita e, quindi, forma all’inespresso e all’inesprimibile. Quelle figure sembrano contenere una vitalità prorompente limitata da un corpo-prigione che impedisce ai veri sentimenti di emergere. Così le sue creature si rinchiudono in sé stesse,  rifiutandosi di comunicare, di emanare il primitivo fluido che esiste in ogni essere vivente. E’ come se Piscopo riuscisse a fotografare l’aura dell’anima con la tecnica Kirlian, mettendo a nudo non la fisicità, la corporeità, ma l’immateriale, il non visibile. Le ombre in fuga della poesia non sono altro che le donne raffigurate nei suoi dipinti, “volti di pietra” e fiori disfatti, prive di sensualità e dalle fattezze vaghe e incerte, come viste attraverso un vetro smerigliato che le sforma e le deforma. Sono le donne di un Sud ancorato alle tradizioni, che relegano la figura femminile nel limbo dell’anonimato e dell’indifferenza. Sono donne che “urlano” e chiedono la possibilità di vivere un’esistenza visibile e perfetta. Inquietudine esistenziale e protesta sociale si fondono insieme nei quadri di Piscopo che colloca l’immagine femminile dai colori forti in un’atmosfera cupa e oppressiva che accentua le distorsioni formali e utilizza il germogliare della donna-fiore-lemure pietrificato.
Persino nei paesaggi c’è una forte esigenza di sfuggire da una dimensione spaziale e temporale ben precisa, vi è un identificarsi con gli alberi, anzi un prendere vita dagli alberi stessi. Si avverte la suggestione di una metamorfosi di anime per implorare un gesto di indulgenza nella disperazione esistenziale, un “momento aurorale” di rinascita, anzi di nascita per divincolarsi dal groviglio avviluppante del vago.
Naturalmente la mia è solo una chiave di lettura della weltanschauung di Cesare Piscopo, un’interpretazione parziale, che suggerisce un percorso, un itinerario probabile, ma non la strada certa. Per questo motivo ho pensato di porre alcune domande all’artista che così potrà esplicitare le sue idee.

*Come considera la sua arte?
-Come un albero le cui radici rappresentano la realtà , il fusto e i rami la mia sensibilità, le foglie il prodotto artistico finale.
*Mario De Marco nella presentazione di apertura della mostra di Lecce ha parlato di una sorta di “trance” alla base del suo modo di fare arte. E’ d’accordo con questa interpretazione?
-Sono d’accordo, a patto che si tenga in giusto conto anche il lavoro preparatorio e l’intervento del controllo razionale necessario per “completare” l’opera.
*Perché lei, spesso, contorna le sue donne nude con linee nere ben marcate, mentre poi non le caratterizza con elementi fisici ben definiti?
-Le linee di contorno, quando sono presenti, tendono a catturare il perenne fluire delle forme.
*Quali significati assumono, per lei, gli “spazi aurorali” presenti nei suoi paesaggi?
-Esprimono la speranza di una convivenza più equilibrata ed armoniosa fra l’uomo e la natura.
*Quali possono essere gli sviluppi futuri della sua arte?
-Un riflesso sempre più puro di ciò che osservo, penso e sogno.

Per concludere, vorrei citare una poesia dell’artista, particolarmente significativa in quanto compendia la sua visione dell’arte:

Difficile dare forma
alle indefinibili vibrazioni
dell’animo

Ho provato
ad abbozzare una traccia
traiettoria del mondo
che vive fuori e dentro di me

Giorgio Barba (1998)









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domenica 17 febbraio 2013

Alfredo Ligori. Incontro con l’artista Giuseppe Piscopo






Nel corso di una recente visita al laboratorio-galleria di Giuseppe Piscopo, ho avuto modo di scambiare con lui quattro chiacchiere, così come si fa tra amici. Più che di un’intervista vera e propria, quindi, si è trattato di una conversazione informale, spontanea, senza domande predisposte e senza risposte meditate. Eccone il testo.

D. Il Piscopo scultore utilizza i materiali più disparati, dal tufo al cemento, dal legno alla carta…, persino pezzi di telaio, ma l’argilla è di gran lunga il più utilizzato. C’è un motivo?

R. Io amo tutte le arti, per almeno venti autentici motivi.
Amo la creta di più tra tutti i materiali che da oltre mezzo secolo cerco di usare per intimo e indispensabile bisogno di esternare i miei sentimenti, gioie e dolori. Ma, soprattutto, dicevo, ho amato e amo la creta. Che gran godimento affondare le mani in un certo modo nella creta molle e poi toglierle e scoprire in quelle impronte una figura, un viso pieno di sofferenza o di felicità, il corpo di una donna, due, tre…e dare sfogo alla fantasia e all’immaginazione! Può darsi che, pur con i successivi interventi, non venga fuori nulla di buono, ma può anche darsi che, da una di quelle impronte, nasca lo spunto, l’idea per la realizzazione di una determinata figura, oppure (e perché no?) di un’opera astratta.

D. Tuttavia, la sua resta una scultura eminentemente figurativa, con esclusione pressocchè totale di ogni elemento astratto o informale. Perché questa scelta di campo?

R. In verità, pur riconoscendo che certe forme astratte mi suggestionano non poco, rimango convinto che la scultura più valida è e rimarrà sempre quella figurativa. Il mio maggiore interesse, quindi, è rivolto soprattutto alla figura umana e in particolare a quella femminile: mi sembra che in una figura femminile si possa leggere molto del mondo e della vita, dalle oscure, misteriose germinazioni, alla dolcezza, al dolore, al piacere, alla realtà della vita stessa.

D. Dove trova gli spunti per l’ispirazione?

R. A volte trovo fonte d’ispirazione nell’angoscia della lotta per sopravvivere, nel dramma che talvolta si cela sotto i più dolci nomi, come cuore, maternità, nelle diverse verità dell’oppressore e dell’oppresso e financo nella patecità di certe finzioni che l’uomo si concede. La scultura allora diventa per me un fatto vivo, legato ad un contenuto in rapporto ai valori umani, alla realtà del nostro tempo.

D. Molte delle sue opere hanno qualcosa d’incompiuto o addirittura risultano appena abbozzate, quasi a voler mettere in secondo piano gli elementi formali, stilistici. Perché?

R. Non amo la forma per la forma, bensì per il suo contenuto: nei ritratti, in special modo, più che la somiglianza, cerco di cogliere qualche particolare fisionomico che metta in risalto la personalità del soggetto, tenendo sempre presente che sia i ritratti che le figure, in qualsiasi modo o mezzo concepiti, non possono essere privi di umanità, semplicità e naturalezza, in una parola, della poesia che caratterizza la vera opera d’arte.

D. Se dovesse riassumere la sua arte in una sola frase, come la definirebbe?

R. Sono convinto che i migliori pensieri sull’arte di un artista sono sempre le sue stesse opere.

D. Io penso che questo slogan potrebbe calzarle a pennello: “ascoltare l’anima e dar voce ai sentimenti”. Lo ritiene azzeccato?

R. Sì, perché l’arte non può che essere lo specchio dell’anima e tutte le mie opere sono sentimenti, emozioni, stati d’animo, che si materializzano e prendono forma.  

Alfredo Ligori (tratto dal catalogo Giuseppe Piscopo. XXII Mostra dell’Artigianato della Terracotta; Cutrofiano 7-25 agosto 1994)






sabato 16 febbraio 2013

Alfredo Ligori. Giuseppe Piscopo: l’uomo e l’artista.





Giuseppe Piscopo non ha bisogno di presentazioni, è nome ampiamente noto, sia tra gli addetti ai lavori, sia tra gli appassionati ed i collezionisti d'arte moderna. Già da tempo le sue opere si sono imposte all'attenzione di critici e di collezionisti, inserendosi nei grandi circuiti di divulgazione e liberandosi di quella etichetta di provincialismo spesso affibbiata a molti artisti incompiuti.
Pittore di preminente vocazione naturalista e di fine sensibilità cromatica, è nella scultura che riesce ad esprimere appieno la sua straordinaria capacità di introduzione psicologica, volta alla ricerca del più intimo segreto che si possa nascondere tra le pieghe dell'animo umano. E il frutto di questo suo indagare, scavare, mettere a nudo l'essenza più vera e profonda dell'uomo si concretizza in forme plastiche di una essenzialità e di una incisività sorprendenti. Ma attenzione! Piscopo non è un artista naif, la sua apparente "ingenuità" e la sua accentuata tendenza alla semplificazione ed alla sintesi espressive non sono affatto spontanee, istintive, bensì il risultato di un lungo e sofferto travaglio interiore, alimentato da un background culturale di notevole spessore.
Ma per meglio comprendere la valenza e il significato della sua opera è utile abbassare la maschera dell'artista per scoprire com'è l'uomo che si cela dietro. Il "professore", come un pò tutti nella sua Parabita lo chiamano con deferente affetto, è persona estroversa, naturalmente disposta a cogliere gli aspetti migliori della vita, dal tratto affabile e dall'umanità che traspira da ogni poro della pelle, ma dalla forte personalità. La naturale curiosità intellettuale, la vasta cultura umanistica e scientifica, la multiforme versatilità e l'inesauribile vitalità gli hanno consentito molteplici esperienze di vita e di lavoro che lo hanno portato, di volta in volta, ad essere insegnante, preside, naturalista, speleologo ed archeologo dilettante, intenditore e collezionista antiquario...e chissà quante altre cose ancora.
Questo, dunque, il terreno dove affondano le radici della sua arte ed è a questo ricchissimo patrimonio culturale ed umano che egli attinge a piene mani per trarre motivazioni e spunti per le sue creazioni, spaziando a tutto campo dall'archeologia alla storia contemporanea, dall'antropologia all'etnografia, alla storia dell'arte. Non senza però il filtro della sua originalissima interpretazione e rielaborazione. Frequenti ed evidentissimi, infatti, sono i riferimenti all'arte primitiva ( per esempio alle famose Veneri di Parabita, due statuette paleolitiche che rappresentano la figura femminile con pancia e glutei esageratamente evidenziati, simboli di fertilità), al mondo classico con i suoi rigidi canoni della bellezza ideale, ai vari movimenti artistici che hanno caratterizzato il XIX ed il XX secolo (dall'impressionismo all'espressionismo, dal verismo al cubismo). Ma qual'è il tema di fondo, il filo conduttore che lega l'intera opera del Piscopo? Quale la filosofia che la sottende e che ne costituisce l'asse portante?
E' senz'altro l'uomo e la sua centralità cosmica. L'uomo, eterno protagonista nel bene e nel male, sempre e comunque l'uomo, con le sue contraddizioni, le sue speranze, le sue illusioni, le sue certezze, i suoi dubbi, le sue angosce, la sua fragilità, la sua crudeltà, la sua tenerezza. L'uomo, capace di raggiungere le vette più alte della generosità e dell'amore, per poi sprofondare negli abissi più profondi dell'egoismo e dell'odio. Si spiega così la tendenza piuttosto marcata, a tratti esasperata e quasi ossessiva, ad approfondire e sottolineare gli elementi psicologici della personalità: visi spenti dalla disperazione o illuminati dall'amore, corpi esacerbati dalla sofferenza o addolciti dalla sensualità; e dietro ogni figura, dietro ogni personaggio si percepisce netta tutta la spiritualità dell’artista che con occhio ora sornione ed ironico, ora appassionato e pietoso, ora complice e intrigante, ora compiaciuto ed indulgente, testimonia e partecipa in una altalena di sensazioni, di stati d’animo e di atteggiamenti, dosati con sapiente equilibrio. E, come leitmotiv, una malinconia di fondo, discreta, appena accennata, dolcemente adagiata come coltre leggera, impalpabile, ad avviluppare tutto e tutti di una rarefatta atmosfera di struggente languidità. Nessun manierismo, beninteso, nessuna leziosità, perché le terrecotte del Piscopo si contraddistinguono per l’estremo rigore formale che nulla concede alla captatio benevolentiae, agli accorgimenti, cioè, posti in essere nell’intento di impressionare e sedurre il pubblico; talchè risultano prive di ogni ammiccamento, di ogni affettazione, di ogni ridondanza, di tutto ciò, insomma, che non è essenziale e funzionale alla scarna sintassi espressiva adottata, di facile ed immediata leggibilità. E già, perché al nostro riesce tutto con semplicità e naturalezza, non gli succede mai di scadere nella retorica o di andare al di sopra delle righe, con quella misurata pacatezza o quell’imperturbabile serenità, in una parola, con quell’aplomb da perfetto gentiluomo che gli è proprio, temperato, però, dal sangue caliente che scorre nelle sue vene e dalle emozioni forti che solo la gente del Sud sa provare e comunicare.

Alfredo Ligori (tratto dal catalogo Giuseppe Piscopo. XXII Mostra dell'Artigianato della Terracotta; Cutrofiano 7-25 agosto 1994)




Ritratto di Giuseppe Piscopo


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sabato 9 febbraio 2013

Giuseppe Piscopo. La vera storia delle "Veneri" di Parabita







In virtù della mia passione per l’archeologia, mai sopita, spesso mi recavo con mio figlio Antonio Cesare ed il mio amico Antonio Greco, di Parabita, a visitare vari siti e grotte esistenti nei dintorni del Salento.
Un giorno di dicembre del 1965, Antonio Greco mi indicò una grotta nei pressi di Tuglie, in agro di Parabita, denominata Grotta li Monaci che, in seguito alla scoperta delle Veneri, fu ribattezzata dal prof. Antonio Radmilli Grotta delle Veneri. Essa è situata sulle pendici di una catena di colline che sono distribuite lungo la penisola salentina, fino al Capo di Leuca. Ci recammo insieme sul posto e notammo che di tale grotta gran parte del vano antistante era crollata ed il proprietario, per accedere al resto della stessa, aveva allargato l’apertura esistente. Buona parte del materiale di scavo, fino a circa un metro di profondità, era stato accumulato accanto all’apertura della grotta. Iniziammo nei giorni successivi le ricerche a cui presero parte il già citato professore Antonio Greco, il professore Giuseppe Coluccia da Spongano e mio figlio Antonio Cesare, allora studente. All'interno della grotta, si aprivano dal vano centrale strettissimi e corti corridoi. Furono eseguiti saggi sul terreno a diverse profondità, passando poi al setaccio quel materiale iniziale che via via mostrava notevole interesse per l’abbondante presenza di numerose schegge di ossidiana, nonché frammenti di manufatti in terracotta e comunque un miscuglio di appartenenze a varie  epoche. Pertanto, in seguito, ritenemmo opportuno ricorrere all’aiuto di alcuni operai di Tuglie. Il materiale vagliato veniva trasportato in casa mia onde poterlo esaminare con maggiore serenità. Qui, in un giorno d’autunno del 1966 venne fuori la prima statuina, quella più piccola (alta 6,1 cm. e larga 1,5 cm), alla quale inizialmente non attribuii grande importanza ritenendola un punteruolo di età neolitica. Allorché in un secondo momento venne fuori la seconda statuina, poco più grande (alta 9 cm. e larga 2) ma anche più realistica, cominciai a riflettere sulle sue forme e le eventuali funzioni cui era stata elaborata. Ambedue furono probabilmente ricavate da schegge ossee di bue o di cavallo. 
Qualche giorno dopo mostrai le due figurine al prof. Antonio Pagliara dell’Università di Lecce, il quale immediatamente interessò il professore Antonio Radmilli dell’Università di Pisa, incaricato anche all’Università di Lecce. Quest’ultimo, fortemente sorpreso, segnalò subito il caso all’Università di Pisa onde ricevere i fondi necessari per una conseguente e normale campagna di scavi. Le “Veneri” furono successivamente consegnate al professore Stazio, allora sovrintendente del Museo di Taranto, dove si trovano tuttora.
Non si conosce l’esatta giacitura delle due “Veneri”, ma tracce di terreno  aderenti al tessuto osseo permettono di attribuirle al periodo compreso tra il Gravettiano evoluto e l’Epigravettiano.

Giuseppe Piscopo (2011)
                                                                                                            







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sabato 2 febbraio 2013

Mario Cazzato. Note sulla pittura di Cesare Piscopo






Scrive Cesare Piscopo in un suo breve componimento poetico del 1996: Se chiedo cosa nasconde il mare / tu mi dirai / forse nulla / tutto / chissà / la verità. E se in questa inquieta visione il pensiero non si scompone non è per una raggiunta pacificazione ma per percepire attraverso il mare, i chiassosi tumulti del cuore. Dunque, attraverso tale identificazione, ossia la mitizzazione dell'acqua, l'autore - in generale l'uomo - attinge alla profondità del proprio essere dove solo il presente saetta / sul mare fluttuante della vita. Ai rutilanti colori, alle ardite intersezioni e sovrapposizioni luministiche, alla particolare tecnica pittorica che salda nello stesso moto l'acqua del mare con il cielo, é affidato il compito di esprimere questo particolarissimo stato d'animo che quasi da una posizione di stallo, osserva, e più che osservare pensa, il tragico che permea il nostro intorno. Che è un intorno, come ce lo descrive pittoricamente Cesare, dove cielo e mare, quasi avendo scoperto il moto continuo realizzano un continuum vaporoso, nebbioso, una specie di liquido amniotico ancestrale nel quale l'artista e noi tutti desidereremmo ricacciarci per recuperare l'edenica felicità svenduta. E in quest'atmosfera di acquoso lucore sferzata dal vento, l'uomo ritrova la certezza che, finchè resterà in quel grembo, anche solo a rimirarlo, avrà la garanzia di non morire. L'arte, perciò - l'arte di Cesare Piscopo - non come catarsi ma come approdo ad una dimensione vitalistica e positiva del mondo.

Mario Cazzato (Introduzione alla mostra di Cesare Piscopo “C’era una volta il mare”; Galatina, Museo P. Cavoti - 2009)






Massimo Guastella. La vitalità del segno nella pittura di Cesare Piscopo






Le ricerche ultime di Cesare Piscopo evidenziano l’abbandono senza rimpianti del figurativo e l’avvio di un modo segnico-informale e coloristico assolutamente aniconico sollecitato da culture filosofiche orientali a cui l’artista ha rivolto la sua attenzione.

Nei lavori Piscopo rivela una forte spinta espressiva che sulle carte inchiostrate si fa carica di stati emozionali evocati in un naturale ordine della casualità mediante procedure definite “psico-grafico-meccaniche”. Agli schizzi e alle stesure con carte intrise di colore che si espandono, in una struttura rarefatta sullo spazio bianco del supporto cartaceo, si sovrappongono i rivoli che sgocciolano verso i limiti del foglio senza seguire orientamenti prevedibili.
I gesti creativi appaiono sotto tratti amorfi, monocromati e questi sono dettati dal flusso d’ispirazioni che attraversano la mente dell’artista, che li scova dai suoi stati d’animo più profondi, indescrivibili nei linguaggi comuni. A questi segni si uniscono altri più piccoli che s’integrano con armonia, ricercando lo spazio da occupare, il vuoto da riempire, portando a trasformazioni radicali il niente, il nulla, sino all’assunzione di valori significativamente estetici.

Tra le intenzioni concettuali di Cesare Piscopo vi è quella di trarre dalle inerte materie, carte e inchiostri, una vitalità, la propria vitalità, caratterizzata da una energia tutt’altro che smisurata e che alle volta lo porta a indugiare su registri sereni, su ritmi pacati, quasi fossero scritture d’intensa suggestione lirica, realizzando opere che, come osserva Marina Pizzarelli, “si presentano essenziali, pervase da una leggerezza che talvolta fa pensare al sogno, al silenzio, talaltra propone una resa visiva di armonie, cadenze e contrappunti di tipo musicale”.
In queste composizioni si percepisce un universo che annega nelle macchie d’inchiostro, scandite dal gesto tra le infinite libertà possibili; e i pigmenti di colore, dagli arancione ai blu oltremarino, dai rosa ai marrone, dai verdi ai violetti sino ai neri, buchi dell’oltre, si assestano sul bianco e si confrontano in un muto dialogo dei toni, una potenziale categoria linguistica.
Certi elementi di doppie spirali isolate, virtualmente dinamiche e quei tratti multipli, arcani formalizzati in particolari gestuali-cromatici, nascono con spontanea immediatezza nella manualità di Cesare Piscopo, che li propone quali comunicazioni recondite di pensieri tra lui e gli altri esseri umani.

Massimo Guastella, (tratto da Scritti d’arte Jonico-Salentina – testimonianze su trenta artisti contemporanei, 1992-1998; Filo Editore)