domenica 29 gennaio 2012

Daniela Cecere. Perenne movimento nella pittura di Cesare Piscopo



E’ in perenne movimento, la mano e l’impronta stilistica di Cesare Piscopo; quello dell’artista salentino è un lavoro che non conosce approdi fissi, ma che avanza senza concedersi lunghe soste: non è un’onda che batte continuamente sulla stessa spiaggia, ma una nube che solca cieli sempre nuovi pur restando inconfondibilmente se stessa. Alla base di questa continua ricerca c’è l’amore sconfinato per il colore, sia che esso venga utilizzato nelle tecniche più tradizionali dell’olio e dell’acquerello e in soggetti classici come il paesaggio, sia che divenga segno potente e aggressivo sulle figure o che si spanda, veloce, libero e disinvolto in macchie acquose su carte ruvide o in densi agglomerati sulla tela. Ed è così che la ricerca fa una sosta, recentemente, sulla materializzazione di paesaggi non convenzionali e densi di emozioni, avvalendosi di una tecnica che non lascia spazio a potenziali imitatori: il segno non esiste più; sono i colori stessi che, fondendosi tra loro sul supporto, creano le forme. La materia pittorica non viene semplicemente “depositata” sulla tela e lì abbandonata, ma è continuamente ripresa in più fasi, sovrapponendo il colore strato su strato, dando vita a suggestioni cromatiche intense, lasciando intravedere ciò che c’è “al di sotto” di ogni passaggio del pennello in maniera analoga al distribuirsi di più superfici di intonaco su una parete antica e vissuta. E’ il trasparire del colore degli strati inferiori della pittura che illumina di vita l’intero lavoro rendendo inedita la scelta di soggetti classici come i paesaggi. Dal caotico – ma non casuale – sovrapporsi delle tinte si visualizzano gli elementi di una natura in perenne mutamento; onde, alberi, cieli, rocce, prendono forma dalla materia primordiale e si evolvono sulla tela davanti agli occhi dello spettatore: si può parlare di una pittura in movimento; tutto nel lavoro di Cesare Piscopo, si muove e si modifica: lo stile, i colori, le forme. Tutto si muove, ma in modo tale da non rendersene subito conto, gradualmente. Esattamente come avviene nella natura stessa. Daniela Cecere 




                                                                                                                                                                                                      
    


Nicola G. De Donno. Nota sulla ricerca pittorica di Cesare Piscopo



Nell’occasione della prossima mostra di suoi dipinti paesistici, provo a delineare, in Cesare Piscopo, la complessa personalità dell’artista, attingendo a sue attestazioni (le teoretiche e le creative) che riguardano l’arte. Tra le componenti che motivano i dipinti, la ricerca teoretica è intervenuta di conserva con l’estro espressivo. Lo assilla da almeno un trentennio. Si rilegga la dichiarazione di poetica figurativa, che ha premesso alla mostra leccese di sedici paesaggi nel marzo del 1971 (Galleria Elicona). In quella, Cesare, allora ventiquattrenne, già teorizzava “la natura come […] sensibile alle inquietudini umane”, ed “in comunicazione con l’artista”, il quale, “spinto da forze misteriose”, la invita “a partecipare al suo intimo dramma esistenziale”. Sicché “il paesaggio acquista valore di presenza che incombe su di noi col suo magico potere fascinatorio”. Dunque, l’artista nel dipinto deve tentare “il passaggio” da “una descrizione esteriore (…) alla presentazione di una visione allucinata attraverso un gioco di segreti accordi ritmici”. Al di là della romantica e rischiosa competizione con ineffabilità misteriose – “magico”, “fascinatorio”, “allucinata”, e degli inconvenienti insiti in quelle, resta valida, e basilare nel pensiero di Piscopo, la convinzione di una esistente nascosta consonanza vitale fra la natura e l’uomo (simboleggiandosi tuttavia la natura in “paesaggio” e l’uomo in “artista”). Consonanza nella quale ruolo positivo esercita “l’alito di vita” della natura, ruolo negativo, di rottura, il “dramma esistenziale” dell’uomo. La radice di una tale visione è riconoscibile nel mito suggestivo del paradiso perduto e della collegata utopia di una fattibile ricomposizione dell’Eden con la felicità sua: mito e utopia largamente diffusi nella cultura occidentale (non la popolare solamente) ebraico-cristiana. Aver attinto a questa nobile fonte culturale una giustificazione teorica, che non solamente risponde al suo personale anelito, ma è nel contempo capace di presa universale e socialmente, eticamente, pregnante, è indice di ispirazione artistica ambiziosa e totale. Ma comporta di fatto una ricerca tecnica incontentabilmente ansiosa di perfezionare la trasfigurazione naturalistica ed umana. Tanto da poter generare prostrazioni accanto agli entusiasmi.
Insegue infatti il conseguimento di una resa pittorica, in cui ispirazione immediata e mediato controllo intellettivo, così della componemte segnica come della cromatica, appaiono compenetrarsi spontaneamente, da ispirazione, quasi per sintesi a priori, pur essendo tale armonia un risultato di intenzionalità elaborative gnomicamente finalizzate. Credo che tale esigenza esprima il “gioco di segreti accordi ritmici” indicato da Piscopo giovane nel 1971.
Tale esplicato concetto organico della sua pittura personalizza, con un suo caratteristico lirismo, la collocazione di Cesare Piscopo entro il variopinto panorama di sperimentazione degli stili che ha caratterizzato riccamente le arti figurative contemporanee, a partire in sostanza dal simbolismo letterario, e fino a giungere al rifiuto e distruzione della figura. Tale ricchezza di stili è in parte non piccola legabile alla precarietà esistenziale, che il tumultuoso processo delle scienze e delle tecniche, e purtroppo i conseguiti squilibri etnici ed economici su orizzonte globale, hanno portato e continuano a portare con sé. Come tante altre guise correntistiche nel risvolto formale, questo malessere sociale influisce nel risvolto contenutistico della pittura di Piscopo, non meno che in quella di maestri che lo hanno preceduto. Non poteva non influire. Ma non la rende imitazione piatta. In particolare, è tipica di Piscopo la compenetrazione ossimorica (l’ossimoro compare in più di un risvolto dell’arte di lui) di angoscia e speranza, che nelle opere migliori chiaramente ne marca il lirismo. Il disagio, sempre più allargantesi su scala mondiale, impegna la sensibilità non solamente etica, ma anche estetica dell’artista. E produce, accanto all’intento gnomico e all’emotivo, quello tecnico di poter ottenere, dalla trasfigurazione del dipinto, una duplicazione, pur questa ossimorica, della suggestività di una realtà paesistica, che venga colta non solo nel momento che si fissa, ma anche nell’inesauribile suo fluire. Quanto all’aspetto gnomico, non è fuor di luogo rammemorare che nella prima metà del nostro secolo, ed anche più in qua, esercitava influenza semiegemonica nel pensiero estetico, non solamente italiano, l’idea crociana della bellezza artistica come valore per sua essenza autonomo, “distinto” da qualsiasi forma di condizionamento pratico: arte per l’arte, liricità pura, eticità della bellezza estetica di per sé, in quanto bellezza estetica. Correnti pittoriche, quali l’astrattismo, si sono generate in misura notevole sotto l’ombrello della dottrina estetica dell’arte per l’arte. La catarsi (mi si passi l’estensione del termine) etica, associata da Cesare Piscopo alla sua pittura in funzione edenica, esclude che egli potesse ripudiare in soluzione definitiva (come altri, si vedrà, hanno ritenuto) la maniera figurativa dal suo stile, e convertirsi all’astratto. Anche in ciò si può intravedere una caratterizzazione personale.
L’aspirazione edenica comporta, di per sé, non appagamenti agevoli, ma incontentabilità di scavo, così della realtà come della tecnica compositiva, in rapporto all’immagine di quella che si vuole trasfigurare. Il travaglio della ricerca non è stato finora breve, e continuerà, credo, quanto continuerà per Piscopo il dipingere, cioè tutta la vita. Egli non ha mai sostato nella produzione ed esposizione di disegni e dipinti su carte e su tele, con gli strumenti, gli esperimenti e le invenzioni più vari; mai non dico eludendo, ma attenuando il dovere di scavo migliorativo all’interno della sua iniziale concezione della pittura, e il dovere di coerenza e sincerità con se stesso. Lo scavo critico ha fatto a meno, per più di un ventennio, di esternazioni a mezzo stampa, teoriche: ha preferito l’operatività feconda e silenziosa della prova e della verifica attraverso il linguaggio della matita e del pennello.
Alla parola Cesare è tornato nei primi anni novanta, col linguaggio della poesia. Io non so se aveva prima scritto poesie, come a molti succede già da adolescenti. So invece che ha obbedito all’impulso di pubblicarne non prima della metà degli anni Novanta. Quando cioè ha sentito di aver raggiunto un certo livello o condizione di maturità nell’analisi estetica della sua pittura e con ciò quasi un’impellente consapevolezza di carenze strutturali della espressione solamente visiva. Rilevo che la novità si verifica negli anni dell’esplicato apeiron (sebbene la presenza di “tracce significative di alcuni aspetti della pittura informale e di certo surrealismo” egli abbia segnalato che già comparivano nei suoi dipinti, fin dal ’71). E’ pur vero che i caratteri del linguaggio pittorico, segno e colore, sono, per così dire, liricamente più statici della parola. Sicché l’erompere del verso potrà anche ricondursi a semplice evento semantico. La contemporaneità di Apeiron è però un fatto, e un fatto è che poesia e pittura di Cesare Piscopo si sono reciprocamente integrate nella comunicazione artistica di lui, oggettivamente e soggettivamente. E appare ciò una riprova del fenomeno, già accennato e su cui tornerò, di progressiva immedesimazione dell’artista sincero con la sua arte.
Perciò mi appare fortemente sintomatico, che tappe e caratteri dell’approfondimento tecnico ed estetico (rimasto silenzioso sul piano delle enunciazioni verbali) abbiano trovato sostegno espressivo nella poesia. Sintomatico di una crescita complessiva e complessa dell’artista. I saggi poetici di Cesare Piscopo sono due.
Uno è datato 1996, l’altro 1998 (Panico editore, Galatina). Ma sono le date editoriali, non quelle della composizione dei singoli testi. I contenuti dei quali spesso riflettono gli stati d’animo dell’autore. Questi appaiono meno frequenti ed intensi nella prima raccolta: Fili d’erba; assai più frequenti ed intensi nella seconda: Dal profondo Sud. Ovviamente interessano molto la presente indagine, che riguarda lui e la sua pittura. (Non il valore letterario dei versi, che tuttavia non difettano affatto di illuminazioni stilistiche, inventiva analogica, vigore semantico).
Vi traspaiono dubbi e sconforti al punto da investire idee filosofiche quali esistenza, realtà, verità, essere; ma anche coscienza della validità dello scavo critico condotto e dei suoi esiti, insieme a speranze, ambizioni, tenacia a superare i pur ritornanti pessimismi e amarezze. A documento di tutto questo estraggo dai due volumetti una sommaria antologia dei momenti più significativi e toccanti, senza stare a ordinarli tematicamente.
Da Fili d’erba: “In assenza / di / parole / mi / guardo / intorno // Solo dolore”; “Dubito / che / io / esista”; “Abbozzato / Appena nato / Limitato / Cambiato / Invecchiato // ESSERE”; “Come / antenne / infinite / dell’albero / i / rami / verso / il / cielo”; “Occhi / dell’alba /rosata // Fili / d’erba / fra / le / rocce // Ragni / imbevuti / di / luce”; “A / sera / un / grillo /canta / il / suo / inno / alla / vita”.
Da Dal profondo Sud: “Fiori che gridano / il loro dolore”; “Pare la strada seguire le orme / di mille e più creature / intanto lontano / in un punto sfocato / germoglia la vita i suoi caduchi fiori”; “Vico delle Giravolte / rifugio della speranza / se fra i tragici muri / ancora / lampeggia /sui pallidi volti / precaria la vita”; “Realtà / è quell’onda che osservo / mobilissima verità sommersa”; “Chiarore indistinto // Infinita notte // Si piegano alberi urlanti // in oscuro tunnel // Solitario percorro una strada in salita”. Tre fra le ultime poesie: Una barchetta, Don Chisciotte, Non si apprezza ciò che non si conosce arrivano a tale forma di immedesimazione della persona del pittore con la sua vicenda artistica, da diventare trasparenti metafore di lui, o meglio di una sua condizione di spirito fra disperatamente pessimistica e rassegnatamente rinunziataria. Varrebbe la pena, se vi fosse spazio, di riportare intera la metaforica Don Chisciotte. Questo componimento, apparentemente scherzoso, anzi giocoso, esprime invece apici di disperazione miracolosamente autoironica, e contemporaneamente orgoglio di sé, artista pittore, fin dalla scelta del personaggio allusivo: quel Don Chisciotte tragico insieme e sublime entro il suo sogno ostinato di un suo Eden cavalleresco. Non meno significante di Dal profondo Sud ritengo la anteriore esperienza di Apeiron (1995), mostre e fascicoleto. Credo che proprio nei quattro anni intercorsi tra i due scritti sia maturata la immedesimazione, cui prima ho accennato, del pittore con la ricerca pittorica, quasi ricerchi anche se stesso nel rapporto con l’arte e con gli ambienti dell’arte, o meglio immedesimi a se stesso l’arte e gli ambienti dell’arte. E nel medesimo tempo si liberi del condizionamento esercitato da questi ultimi, facendosene superiore.
Credo di non andare molto lontano dal vero, se ipotizzo che gli stati di sconforto metaforizzatisi nella Barchetta, nel Don Chisciotte, nel Non si apprezza si siano in grande misura alimentati in conseguenza dell’apprezzamento dell’Apeiron nel giudizio entusiastico degli esperti. Cesare ha denominato apeiron (indefinito, indeterminato) una fase, o meglio una guisa, operativamente sperimentata, di quell’aspetto della sua ricerca critica che verte sulla genesi della “forma” nell’arte.
C’è in tale intitolazione un elegante, cultamente appropriato, forse anche compiaciuto, riferimento analogico al nome dato all’archè (principio ed essenza informe di ogni realtà formata, che all’informe ritornerà) dal filosofo presocratico Anassimandro, vissuto fra il settimo e il sesto secolo a. C.
Le opere funzionali a tale sperimentazione (e che non per questo cessavano di essere dipinti da esporre) furono in mostra a Lecce, Tricase, Otranto nel detto anno 1995, naturalmente senza affiancamenti ad altre che fossero vicine all’oggettivismo figurativo. La letteratura critica le ha salutate assai favorevolmente, ma interpretando le mostre come prova di una pura e semplice evoluzione dell’autore dallo stile figurativo all’informale e magari all’astratto: una sorta di conversione definitiva alla casualità del segno e della macchia. In sostanza un allinearsi (tardivo) ad una sorta di modernizzazione stilistica.
Con il consueto garbo e con correttezza di costume, Cesare ha riunito in un fascicoletto a stampa le interpretazioni dei critici. Lo ha tuttavia intitolato Apeiron e chiuso con una sua brevissima autoesegesi. Nella quale (come anche in citazioni di frasi non sue, che ha inserito fra riproduzioni di immagini) non professa alcuna adesione all’informale o all’astratto, pur mentre riconosce gli incrementi tecnici che ne ha ricavati: “Il mio lavoro”, scrive, “nasce quasi come liberazione da ciò che per me è costrizione, artificio, schema precostituito. Esso rappresenta un tentativo di realizzare un’immagine come evento naturale in cui le “forme” crescono e si trasformano senza sforzo. Continua poi riaffermando una concezione teleologica di pittura paesistica che non si discosta da quella che ha enunciato nel 1971.
Ma quasi trent’anni di lavoro e di indagini tecniche sono venuti progressivamente affinando: “Operando”, scrive, “una istintiva gestualità, in cui armonizzano l’elemento naturale del caso e l’elemento umano del controllo, vedo generarsi […] una trama arteriosa e metamorfica di segni colorati: materia iridescente, attributo di u mondo incontaminato in continua evoluzione che originandosi, espandendosi e ramificandosi registra un ritmo, un respiro, un soffio vitale”.
Un passaggio, insomma, dall’informe anassimandreo alle forme, attraverso le spinte, consonanti, dell’istintualità (casualità, spontaneità) e dell’intelletto (riflessione, controllo razionale). E tali spinte si motivano in funzione, artistica e gnomica a un tempo, dell’ideale, quanto si voglia utopistico, di un ritorno edenico: la fase dell’apeiron non vuole essere che una tappa della “lunga marcia” di Cesare nello scandaglio. Tappa costruttiva, certo, e certo non ultimativa. Cesare ne è, e ne è sempre stato, tenacemente convinto, anche se pause, dubbi, scoraggiamenti non gli siano mancati, né amarezza per le incomprensioni. Si è però sempre risollevato, nella fiducia di sé e del valore della sua arte. I due brani che seguono ai tre indicati, dello sconforto, e che chiudono la raccolta poetica Dal profondo Sud, attestano Cesare ben fuori dalla disperazione del Don Chisciotte. Non fuori da ogni eventuale apertura a nuove ricerche, anzi fiducioso nella loro positività maieutica. Sempre però rimanendo fermo il fine estetico-etico della ispirazione che ne caratterizza personalità e stile. Un “attributo” della pittura paesistica che la renda purificante dalla “contaminazione” attuale della natura non avrebbe alcun senso, se dal paesaggio dipinto restasse esclusa la figura umana. Né avrebbe  senso affidare all’arte valenze gnomiche, come è carattere di quella di Piscopo, e lo è stato di quella di molti altri, con proprie differenziazioni ciascuno, fin da Platone ed Aristotele. Che la figura umana non possa essere estromessa dalla figuralità naturale, che anzi appunto la incombente presenza di essa contribuisca al vigore della suggestività purificante, Piscopo lo ha pensato da sempre. Numerosissimi sono i suoi dipinti con figure umane nel paesaggio, e abbondanti quelli con preminenza delle figure.
Nel fascicolo di presentazione dell’Omaggio a Kokoschka (Castrano, aprile 1998), lo ha esplicitamente affermato: “Nella mia recente produzione pittorica si denota un ravvivato interesse per la figura umana e per il paesaggio”. Ha anche riprodotto nella prima e quarta faccia di copertina ben otto fra gli studi a penna preparativi del mirabile ritratto Dedicato a Kokoschka. Ha di seguito precisato che “volti e corpi, dai tratti grotteschi e caricaturali, rappresentano un’umanità primordiale desolata, vanamente alla ricerca di equilibrio, di armonia, di perfezione”; e che ”i paesaggi evocano, in un’atmosfera spesso cupa e drammatica, un senso di vuoto e di inquietudine esistenziale”. Sono figurazioni che si direbbero più vicine allo stato d’animo da cui è sgorgata l’analogia del Don Chisciotte, che alla generosità dello impegno edenico. Quasi che nessun lievito, neppure nascosto, di speranza edenica fosse operante. In altra pagina però del medesimo fascicolo Piscopo spiega all’intervistatore che “gli spazi aurorali” di vari paesaggi “esprimono la speranza di una convivenza più equilibrata ed armoniosa fra l’uomo e la natura”, ribadisce, cioè, l’intenzione gnomico-catartica della sua produzione paesistica. C’è incompatibilità fra le due posizioni? Oppure l’artista si propone di ottenere esiti catartici tanto popolando il paesaggio di trasfigurazioni – della natura e degli uomini – mostruose e repellenti, a condanna del disastro ecologico in corso, quanto esibendo trasfigurazioni paesistiche splendenti di bellezza, a nostalgia pungente del paradiso perduto? Anche la satira, la caricatura, il grottesco, perfino il brutto può l’artista esser capace di sublimarli in connotazione positiva di un messaggio. D’altronde nessuna contraddizione comporta l’idea di ambivalenza così del mostruoso come dell’idillico in funzione di un’unica finalità, bella o brutta, buona o cattiva che sia. Nella pittura come in qualsiasi altra forma di umana attività. Anzi, e ciò forse vale solamente per le arti, l’ambivalenza dei mezzi è ricchezza che si apre alla scelta dell’estro e della professionalità dell’artista.
Non poco, io penso, della forza vera di Cesare Piscopo pittore, e del pregio vero della sua produzione artistica sta nell’abbinamento di coerenza ideale e flessibilità sperimentale. Ciò lo rende difficile da inquadrare, quasi che abbia oltrepassato il presente, che ne abbia intuito, ne viva, la caducità culturale e voglia che il dipinto la fissi, ma anche voglia trovare una forma, nel medesimo dipinto, di comunicazione che oltrepassi la caducità. E’ esigenza, appunto, “difficile”, ossimorica, strutturale all’utopia edenica. La ispirazione poietica di Cesare Piscopo è robustamente sostanziata di storia dell’arte pittorica. Cultura storica (dovrebbe essere superfluo ricordarlo) è altra cosa da ripetizione passiva. Non toglie originalità alle opere, ma le alimenta e irrobustisce proprio perché le storicizza, le colloca durevolmente nel presente. Può avvenire nell’oggi che si giudichi “già vista”, e dunque non originale, effimera, l’opera dell’artista nutrito di storia, ma solo perché la si è guardata poco e male, con superficialità o, peggio, con narcisistica infatuazione.
Primeggia in Piscopo lo studio della espressione in autori contemporanei, quali Munch, Nolde, Ensor, Rouault, Kirchner, Kokoschka, Klee, Giacometti, Dubuffet, Mirò, Jorn, de Kooning (ma anche i grandi paesisti dell’impressionismo, non ultimo Van Gogh). Questo momento, infatti, della storia pittorica (nel quale variamente vengono affrontati temi inerenti alla perdita di identità dell’uomo di massa, alla precarietà dell’esistenza, alla violazione della natura) intimamente consuona con la vocazione artistica di Cesare e con i tormenti etico-sociali che la stimolano. Né, ovviamente, il bagaglio storico di Cesare rimane sordo all’idealità di bellezza armoniosa dei Grandi rinascimentali, né a quello di ingenuo stilizzato candore dei loro ugualmente grandi predecessori, tanto più che questi respirano un “realismo apparente”, in tanti aspetti non lontanissimo dall’odierno “primitivismo”. E il “realismo apparente” (come pure il “non realismo” apparente), abbiamo già accennato, è anche una dimensione non secondaria del linguaggio pittorico di Cesare.
Nella mostra che conta di organizzarsi nel prossimo febbraio, pare che Cesare abbia deciso di affidare alla sola trasfigurazione paesaggistica della natura quella efficacia catartica, che è insieme piacere estetico ed educazione ad un futuro salvifico. E non è detto che nei dipinti che esporrà egli non abbia conseguito livelli di suggestione espressiva che superino, e non di poco, la “descrizione esteriore” degli oggetti. Né è detto che con ciò non abbia nulla ottenuto della finalità, pur utopistica, che costantemente si è andato si va proponendo, ed in ordine alla quale, esclusa ogni leziosità ornamentale o descrittiva che rompa la stretta essenzialità compositiva, si avvale di ogni materia e di ogni libertà capaci di alimentare convivenza “pacifica” dell’uomo con l’ambiente naturale. Il “pacifica” è termine suo del pittore Cesare Piscopo. Ma proprio di “pace” edenica, che la comparsa dell’uomo nell’Eden ha rotto, cantò anche il poeta magliese morto giovane undici anni fa, dileggiato dai benpensanti, Salvatore Toma. Ora lo si sta comprendendo e rivalutando.
Ripeto, la “salita” di Cesare è sempre in itinere: “Solitario / percorro / una strada in salita” (Dal profondo Sud, p.19). E ad un intervistatore recente, che gli ha chiesto: “Come considera la sua arte?”, ha risposto: “Come un albero le cui radici rappresentano la realtà, il fusto e i rami la mia sensibilità, le foglie il prodotto artistico finale” (Omaggio a Kokoschka). E chi non sa che le foglie, anche quelle cosiddette perenni, cadono e si rinnovano? E non sente il poeta Piscopo “come / antenne / infinite / dell’albero / i rami / verso / il cielo”? (Fili d’erba, p.19).

 Tratto da: Nicola G. De Donno, Nota breve sulla ricerca pittorica e la utopia edenica di Cesare Piscopo; Editrice Salentina, Galatina - 1999.






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giovedì 26 gennaio 2012

Mario De Marco. Cesare Piscopo poeta







 Animo sensibile e vibratile, Cesare Piscopo è conosciuto soprattutto come pittore, e solo dal 1996, con Fili d’erba, il pubblico lo apprezza anche nella sua qualità di poeta. Ritengo necessario premettere che per meglio cogliere i motivi ispiratori delle liriche del Nostro sia necessario e indispensabile operare una lettura parallela delle sue “carte inchiostrate” e dei suoi versi, essenziali sia per quanto attiene il linguaggio e sia, ancora, per quanto riguarda i contenuti di indubbia matrice esistenziale.
Sotto il profilo stilistico appare inevitabile l’accostamento di questa raccolta di versi con l’ispirazione dei proto romantici anglo-tedeschi, non solo per gli accenti pessimistici, ma anche per l’anelito verso l’infinito e il sublime, per lo scandaglio del proprio animo nonché per il panico coinvolgimento degli elementi naturali.
Nelle poesie di Cesare si trovano l’equilibrio e la misura dei termini, ma ciò non è prodotto né da un’operazione fatta a tavolino né, tantomeno, dalla ricercatezza tesa a suscitare qualsivoglia effetto sul lettore. Il canto scorre spontaneo, sicuro ed immediato, sorge dalla consapevole visione del mondo e della vita che non si irretisce nello sterile solipsismo ma, al contrario, si dona come personale testimonianza di un vissuto che attraversa il dolore.
L’amore, gli affetti, la natura vivente e palpitante, sprazzi di vita e di paesaggio salentino offrono i contenuti della riflessione del nostro autore che, tra sogno e ricordo, tra impressioni e meditazioni, con simboli, metafore e allusioni si rivendica, infine, lo spazio ristretto per trarre a volte le proprie conclusioni le quali, spesso, hanno il sapore aforistico.
Cesare è un uomo che sa guardarsi dentro e attorno, riesce ad interrogare e ad interrogarsi, tuttavia il suo porgere è semplice, è privo di spocchia e si palesa con umiltà e semplicità, forse con la speranza di ottenere risposte, forse perché crede nella possibilità della trasmutazione di ognuno e di tutti. Un pessimismo, quindi, che lascia via d’uscita, un interrogarsi sull’esistenza che non trascura la possibilità di meravigliarsi, di commuoversi, di dire sommessamente ciò che si agita dentro.
Ritengo che il nostro autore si faccia interprete di quanto non siamo in grado di cogliere e di dire, credo che proprio per questa ragione Cesare promuova una interessante coralità, l’ascolto del lettore, poiché non poco ha da dire e da dare.

Mario De Marco (prefazione al libro di poesie di Cesare Piscopo: Dal profondo Sud, 1998)  

                     




Marina Pizzarelli. Ideare facendo






L’ultimo contatto di Cesare Piscopo con il mondo “visibile” delle forme, con la riconoscibilità dell’immagine, risale a più di un anno fa, a certi suoi disegni a matita che rivelavano, nella ragnatela intricata delle linee, nello sfumato ottenuto attraverso cancellature, una figura umana. Ma già questa era ridotta a larva, a ectoplasma, ad una sorta di insetto-uomo che appariva e scompariva nel bozzolo di linee e macchie, richiamando alla mente certe drammatiche figure di Dubuffet o di Giacometti, immagini scarnificate di estenuata spiritualità. E anche laddove il rigore del bianco e nero veniva vivificato dall’apporto cromatico, nelle tempere a colori dissonanti, espressionisti, i contorni neri, decisi, alla Kirchner, riuscivano a malapena a trattenere ancora un’allusione alla figura, prima della sua scomparsa totale, in immagini che rievocano quelle di Egon Schiele o di Willem De Kooning.
Oggi questo processo di progressiva rarefazione ed astrazione, da tempo avviato, sembra essersi definito in una pittura che non rappresenta o descrive, ma evoca, e di quei precedenti mantiene intatta la scelta della psiche. E’ come se quelle ricerche avessero portato l’artista a varcare del tutto la soglia della razionalità, per abbandonarsi e fluttuare in quell’universo anti-gravitazionale nascosto – solo a saperlo vedere – in ciascuno di noi: così sulla tabula rasa del foglio bianco aggallano forme pseudo-Kandinskiane, organiche e fantasiosamente astratte, immagini campite da colori trasparenti e contrappuntate da neri, in bilico tra una serie di rimandi semantici attinti dalla reatà esterna e da quella interiore, luminose ed incorporee come flussi di energia telematica.
Ideare facendo, sembra essere il principio che oggi presiede alla pittura di Cesare Piscopo. L’attenzione è rivolta al gesto, al segno, come immediati referenti dell’anima e di una conoscenza che è intuitiva e profonda insieme, capace di andare “oltre” il sensibile, fatta di percezioni sospese e confuse, ma assolutamente determinanti. Così queste opere sono tabulae scriptae, un agglomerarsi di tracce, una scrittura dell’anima.
All'origine di questo processo di astrazione sono le filosofie sottese alle estetiche orientali, cui l'artista è interessato, quella dottrina Zen che sul piano gnoseologico ammette un tipo di conoscenza assoluta e irrazionale, diversa da quella intellettuale, una conoscenza soggettiva e non trasmissibile se non attraverso il potere espressivo dell'immagine e le sue accezioni simboliche.
Così il linguaggio pittorico di Piscopo si svolge all'interno di un ritmo informale a dominante gestuale cromatica e segnica, dove confluiscono una profonda carica emozionale e la volontà di canalizzare in forma simbolica questa forza. Il nucleo dell'azione pittorica sta nell'urgenza di esprimere un'emotività gestuale che però riesce ad organizzarsi e permette alle immagini inconscie di affiorare alla coscienza.
Si potrebbe parlare di un processo psico-grafico meccanico che Piscopo attiva sul supporto, secondo una modalità di operare che consente pochi ripensamenti, si affida alla casualità, e lascia ampio margine all'immediatezza, alla spontaneità della visione.
Così sul piano dell'opera si modulano urti e accordi allo stato puro, talora sospesi nel loro principio di gestazione e lasciati quasi in abbozzo per esprimere l'insorgere di un pensiero che si manifesta in lampeggiamenti.
Colori ombrosi affondano e colori luminosi affiorano in una sintassi scorrevole, in una mobilità di impianto espressivo che si muove per variazioni di andamento e trasparenze.
C'è una naturalezza della grafia che l'artista tende a controllare elaborando dei nuclei di resistenza che rallentano e raffreddano la corsa. Agli azzurri, ai rossi, ai gialli è affidato il compito di generare le condensazioni più intense; i neri (linee, gocciolamenti) corrono sugli sfondi o s'insinuano come punte di diamante nelle maglie di quei microcosmi luminosi, mentre improvvisi "buchi neri" creano profondità che attirano l'occhio in una sorta di ipnosi percettiva, rivelando la possibilità di un "oltre" oscuro ed inquietante.
Dalle suggestioni dell'arte orientale deriva il gusto per l'asimmetria, l'elegante calligrafismo ai limiti dell'ideogramma, il valore del segno e il fascino dell'assenza, del vuoto, contrapposti all' horror vacui dell'arte occidentale.
Il rapporto con la carta, materiale vivo, si respira continuamente attraverso questi segni che spesso consentono interstizi e molto spazio intorno, che lasciano respirare il lavoro: il supporto diviene così parte integrante di una ricerca che, se è veloce nel tratto, non lo è affatto nel processo creativo, frutto di meditazione.
Così queste carte si presentano essenziali, pervase da una leggereza che talvolta fa pensare al sogno, al silenzio, talaltra propone una resa visiva di armonie, cadenze e contrappunti di tipo musicale.
Ma è soprattutto il senso di una sottile ambiguità di lettura a scaturire nelle opere di Piscopo, sorta di criptogrammi in cui si può scorgere tutto e nulla, animali, nuvole, cieli, galassie remote o pure forme astratte che danno l'impressione di un assoluto sganciamento.
Ed è appunto questa la metamorfosi sciamanica della sua pittura: movimento di traslazione della materia in costellazioni senza peso.

Marina Pizzarelli (dal catalogo delle mostre personali di Cesare Piscopo a Tricase - Biblioteca Comunale e a Otranto - Museo Diocesano; 1995).





















venerdì 20 gennaio 2012

Aldo Vallone. Due lettere a Cesare Piscopo





Nella produzione di Cesare Piscopo, nato a Parabita ma galatinese per ascendenze, raccolta dal 1973 ad oggi, cioè dal diploma dell’Accademia all’esercizio professionale, contano innanzitutto la varietà e la molteplicità delle esperienze. A fronte degli otto ultimi “pezzi”, in genere tempere acquarelli ed oli, si pongono centinaia di abbozzi disegni schizzi impressioni, che restano tutti e resteranno, forse, nelle gonfie cartelle da studente: un cammino breve ma intenso, fortemente cadenzato in ritmi e movenze, sottolineato da soste e ripensamenti. Perché quello che piace e giova e impressiona, in un giovane come Piscopo, è l’insistenza su temi e motivi, che si dispongono, spesso solo lievemente variando tra loro, senza fretta e senza concessioni alla bravura. L’immaginazione non è mai lasciata a se stessa, allo stato di spontaneità pura; ma è sorretta da lungo studio, rivolto a togliere o ad aggiungere qua e là un dettaglio prima di  tendere alla conclusione. E quando questa si raggiunge, un altro orizzonte si apre prospero e genuino. Può capitare che il dettaglio, espunto da una tempera perché visto come estraneo e ornamentale, non cada del tutto e riempia poi di sé una tela o un acquarello per realizzare un’altra idea in altro spazio. E l’una e l’altra si pongono decisamente dinanzi alla natura, all’uomo e alle cose. Non si descrive, né si canta, né si allegorizza. Piscopo ha imparato anche lui, come ogni giovane di avido ingegno, le tecniche più vaghe e perentorie d’oggi, i loro segreti e i loro artifici; nei disegni v’è lunga traccia, vivida e aperta come testimonianza; ma ha poi imparato, osservando per conto suo, a vivere le cose, dentro, al di là dei legami della scuola, a trovare anzi i veri segni nello stesso solco dei grandi maestri. L’astratto, il geometrico, il collage, in cui pure egli indulge con prove di buona mano nei primi anni, si dissolvono via via e assumono modi interi e propri: forma è allora sostanza. Le cose stanno lì e si piantano vigorosamente nel reale, partecipi del reale, pronte a fare storia con noi, a legare nella memoria tempo e spazio simultaneamente. Il tema è il mare, vario e costante insieme, sia che domini incontrastato, come in Lungo la costa Lo scoglio rosso La nave Plenilunio sul mare; sia che affiori ai margini di case e borghi ammucchiati, come in Novaglie; sia che si indovini, taciturno e immoto, oltre le arse pianure, come in Strade del Salento: una realtà piena e sognata, verghianamente sofferta più che goduta, umbratile più che meridiana, tesa in colori cupi, ma anche soffice di smorzate dorature come soavi folate di bambagia. La ricerca del colore (e dentro si coglie l’alta scuola del disegno) se da un lato esprime un’ansia superata  ma non repressa o una fatica redenta, da un altro quasi sempre ispira mite amore e serenante fiducia al di là della gioia solare e della cupa malinconia. E’ una forma-sentimento, un colore-stato d’animo, umilmente ma costantemente cercati, che ci riportano, almeno per tentazioni suggestive, alla lezione di Toma galatinese. (1978)





 
Rapido e intenso è il percorso artistico compiuto da Cesare Piscopo: più distanziate (e proprio a partire dai tentativi ardenti di fresca adolescenza) le prime prove (1963); più fitte, invece, e costanti, le ultime con le mostre a Lecce, Tricase e Otranto (febbraio e luglio ’95).
Ed ora, in questo primo autunno, appare una nuovissima serie di “composizioni” (inchiostri su carta), in cui il tratteggio, forte e delicato insieme, del passato è quasi tutto dissolto. Non v’è disegno; non vi sono soste o sospensioni di preordinata meditazione: v’è un istinto mobilissimo, che tenta di evadere da ogni limite, quasi un suggestivo abbandono alla casualità o al capriccio o anche al diletto che può dare il colore. Ed è questo che a me interessa maggiormente: ad esempio, quel rosso, spruzzato sul bianco-roseo della carta, acquista una vitalità inconsueta e toni d’immediato risalto.
Scompaiono le linee portanti, il ”figurato” dello stile precedente; ma dentro, pur nell’astratto più ardito e immaginoso, si può scovare l’ombra o il sentimento di una terrestre salentinità.
E’ questo, allora, un passaggio obbligato per future prove? Forse: ma così come sono (o come io leggo) queste composizioni, innovando, profondamente persuadono. (1995)





Tratto da: Aldo Vallone. Scritti Salentini e Pugliesi; a cura di Giancarlo Vallone – Mario Congedo Editore



giovedì 12 gennaio 2012

Francesco Fersini. Il paesaggio marino di Cesare Piscopo





Cesare Piscopo, parabitano, è una figura di un certo spessore artistico, poiché oltre a essere pittore, già apprezzato a suo tempo dal grande artista austriaco Oskar Kokoschka, è anche scultore, poeta e già docente di Educazione artistica. Ha pubblicato Fili d’erba (1996), Dal profondo Sud (1998), Il mare dell’amore (2006), Messaggi dal mare (2007), e recentemente l’antologia Sotto le silenziose nuvole un mare di pensieri. Dal 1963 espone con successo in varie mostre e le sue opere sono esposte in collezioni pubbliche e private, in Italia e all’estero.


Dopo un’attenta ricerca sull’astratto, Cesare Piscopo è passato alla figura umana analizzata nelle sue forme espressive, per poi approdare allo studio del paesaggio. La sua attenzione ora si concentra sul mare. Non a caso, vari titoli di sue opere sono un costante richiamo a questo elemento paesaggistico. Penso al Canto notturno del mare; Il mare di Vincent; Mare in tempesta; Movimento di vita; Altomare; Mare d’inverno; Natura la tua bellezza ci commuove; Oltremare; Il cielo e il mare di Leuca. Perché proprio il mare? Piscopo lo spiega molto bene. Il mare è sinonimo di forza e di energia che penetra ogni forma di vita; è specchio e luogo dell’anima. Il suo è un paesaggio-stato d’animo come allude in una sua poesia…Tutto tace mentre ascolto il mare e i chiassosi tumulti del mio cuore…In un’altra della raccolta Messaggi dal mare esalta i colori che sono come il mare, ti accarezzano, ti sconvolgono si sciolgono in luce, un mare di luce.
Osservando queste sue opere, l’osservatore sembra quasi essere travolto dal  turbinio dei flutti e la stessa pennellata, a tratti materica e virulenta riesce a trasmettere una intensa carica emotiva. La forza del colore è tale che esso stesso sembra trasformarsi in acqua, diventa insomma una sorta di metaplasma, come è stato definito da Cesare Padovani.
Il paesaggio marino di Cesare Piscopo, realizzato come fosse un ritaglio, non è certamente reale, ma interiorizzato, reinventato e rivissuto liricamente. E’un paesaggio quasi visionario e trasfigurato, filtrato attraverso la propria sensibilità, che determina a tratti un linguaggio cromatico tutto particolare. Penso per esempio a quella linea di orizzonte che a volte viene ombreggiata o marcata di nero, quasi  a significare che oltre c’è il vuoto e il nulla. In effetti Piscopo considera la realtà in continuo divenire dove l’essenza del tutto è il vuoto. Con questo mare l’artista entra in simbiosi e opera una fusione, una sorta diremmo quasi di panismo dannunziano; sono significativi i versi di una sua poesia… Seguirò l’istinto. Ti porterò al mare di notte…saremo acqua e roccia e nuvole sovrapposte
Il mare di Piscopo potremmo infine definirlo una sorta di Eden o meglio di felicità naturale dove, per usare un termine montaliano, gli ossi di seppia possono galleggiare felicemente prima di essere sbattuti sulla spiaggia e per citare i versi del Leopardi potremmo veramente dire “…il naufragar m’è dolce in questo mare…”. Qui sta la novità di Cesare Piscopo: la sua sensibilità é romantica, ma viene rivissuta in una prospettiva artistica tutta moderna e originale.

Francesco Fersini (introduzione alla mostra di Cesare Piscopo a Leuca.; Auditorium Chiesa Cristo Re - Luglio 2009).








Alessandro Laporta. La luce nella pittura di Cesare Piscopo





Ricordo che un’amica straniera in visita per la prima volta ad Otranto mi diceva: “Siete fortunati voi Salentini ad avere una luce così. Noi non siamo abituati. E’ una cosa speciale”. E continuava: “Altrove nell’Italia di lassù, le messi non rifulgono in questo modo sugli avvallamenti e poi sui piani sterminati” citando Antonicelli che chissà come si era procurato e aveva letto in edizione originale, prima di affrontare l’ultima parte del suo viaggio.
Ecco, è proprio sulla luce che si concentra questa mia riflessione intorno a Cesare Piscopo, alla sua capacità di suscitare emozioni stendendo in un certo modo il colore sulla tela, insistendo su un paesaggio che forse non ritrovi subito guardandoti intorno, ma certamente se cerchi in te stesso. Di lui conoscevo alcune già folgoranti esperienze giovanili che preannunziavano gli studi di questi anni; e conservo un delicato acquerello siglato Napoli 1968, che a vederlo ogni volta mi regala luce e poesia.
Oggi lo trovo, questo modo di esprimersi misurato e romantico, nel mare di diversi colori, che potrebbe non sembrare credibile, ma è tutto di qui, della costiera fra Castro e S. Maria di Leuca.
Piscopo lavora e si strugge sulla luce. Il mare può essere nero e variare nei toni del verde e dell’azzurro: poi spunta il bianco e si nasconde; compare l’arancio, si avvita in tre o quattro pennellate e si perde nel giallo che strappa l’applauso: come in una danza vorticosa e imprevedibile, variopinta, che induce l’occhio a percorrere in tutti i sensi la tela senza fermarsi.
Il sole abbandona presto gli scogli del Ciolo e se ne va sullo Jonio a ravvivarne i riflessi, ma le ombre non sono mai prevalenti, nemmeno nel cuore della pietra, dove dormono le Veneri steatopigie e le Madonne bizantine. Anzi sono amiche, come scrive Gatto a Lucugnano: "E il paesaggio si esalta al mattino, saziandosi di luce".
Cesare Piscopo cattura questa luce e si interroga. Si interroga sul paesaggio stesso che connota una terra orgogliosa e millenaria, alla ricerca di una formula che ne interpreti il messaggio cifrato. Accetta la sfida della poesia, anche lui poeta di versi oltre che di colori, ed ingaggia una lotta impari con gli elementi della natura incapaci di stare fermi, ma che vuole a tutti i costi fissare nei suoi quadri. Poi torna nuovamente alla luce e si riposa.
Di questi riposi, di queste oasi tranquille, è fatta la sua arte che crea in lieta armonia, in perfetta sintesi sentimentale con la sua idea del Salento. Se legge il mare, o ascolta il cielo, se trasforma in sogno la terra o si arrampica sulla scala dei colori, non posso che condividerne le scelte istintivamente. Come d’istinto ho amato le sue cose, acquerelli, olii, sculture, poesie, e sono qui a renderne pubblica testimonianza.


Alessandro Laporta (Introduzione alla mostra di Cesare Piscopo “Il paesaggio, la luce della poesia; Palazzo Comi, Lucugnano – 2005).






venerdì 6 gennaio 2012

Capire l'arte




L'arte risponde a un bisogno fondamentale dell'uomo. Suo primo scopo è una più completa interpretazione della vita, in tutta la sua pienezza. Le capita, è vero, di servire altri fini: religiosi, politici, sociali, simbolici; ma questi fini, siano o non siano lodevoli, sono estranei alla sua funzione primaria, e possono anche costituire un ostacolo al suo svolgersi. L'arte non contribuisce al soddisfacimento delle più immediate necessità vitali. L'umanità non può vivere senza cibo, senza un tetto e senza vestiti; può invece sopravvivere senza arte. Il desiderio di esprimersi per mezzo dell'arte è tuttavia così profondamente sentito che, fin dalla preistoria, si è manifestato senza interruzione su tutta la faccia della Terra; e ciò che sappiamo sull'uomo primitivo - a prescindere da quello che ci hanno insegnato le sue necropoli - lo dobbiamo all'artigianato. Questa prima forma d'arte dimostra la tendenza dell'uomo a conferire agli oggetti qualcosa di più di un semplice carattere utilitario, qualcosa che possa allietare anche la vista, la mente e il cuore.
Poche altre attività umane sono suscettibili di tante interpretazioni diverse; il significato dell'arte varia da persona a persona. La varietà e la complessità delle vie d'accesso alla comprensione dell'arte devono indurci alla tolleranza. Le teorie estetiche hanno analogie con il costume: ognuna di esse vale per la sua epoca e per il suo paese. Fino a quando l'umanità sarà composta d'individui, ognuno sceglierà la via che gli conviene. Alcune sono aperte a tutti, qualunque sia la loro formazione culturale; altre esigono un'esperienza o conoscenze particolari, o tutt'e due. Chi dispone di un maggior numero di mezzi d'approccio ha, ovviamente, maggiori possibilità di godere tutte le gioie procurate dall'arte.
L'opera d'arte è come un triangolo, i cui lati siano il soggetto, l'espressione, la forma. Questi tre elementi sono interdipendenti, ma non hanno necessariamente lo stesso peso. Un artista può dare importanza a un elemento piuttosto che a un altro. Siccome nessuno di questi elementi ha in sè maggior valore degli altri, non è detto che accentuare l'aspetto formale sia meglio o peggio che attribuire importanza capitale all'elemento espressivo o al soggetto. I lati del nostro triangolo non debbono esser confusi con i mezzi tecnici dell'arte  - linea, massa, volumi, spazio, colori, materiale usato - che permettono all'artista di dar concretezza al soggetto, all'espressione, alla forma. Esaminiamo ora separatamente ogni lato del "triangolo", a cominciare dal soggetto o contenuto. Quasi tutti i dipinti hanno un soggetto; essi "rappresentano" qualche cosa, anche se, da quando è nato l'astrattismo, soggetto, espressione e forma non sono necessariamente individuabili. Il soggetto, dunque, può essere elementare o trascurabile. 
Per espressione intendiamo l'interpretazione del soggetto o del tema. In teoria, l'artista può servirsi del colore o di altro materiale per tentare di dare un'immagine obiettiva di ciò che vede, per "fotografare" in qualche modo una scena o un oggetto a due o tre dimensioni. In pratica, però, questa obiettività è molto rara. Due artisti reagiscono raramente allo stesso modo, a uno stesso soggetto.
La forma  è il terzo lato del nostro triangolo, ed è l'organizzazione di un'opera a prescindere dalle esigenze del soggetto e dell'espressione; è il modo di realizzare un'immagine. L'unità estetica di un'opera d'arte si ottiene con la composizione, cioè con il coordinamento visivo dei diversi elementi.
Alla composizione concorrono tre fondamentali fattori: l'armonia, il ritmo, l'equilibrio.
Per concludere questa breve e sintetica esposizione, possiamo dire che l'arte nasce dallo spirito di un'epoca e la storia dell'arte deve la sua infinita varietà all'azione congiunta dell'epoca, del luogo e della personalità.
Tratto da: E. M. Upjohn, P. S. Wingert, J. G. Mahler; Storia mondiale dell'arte - Dall'Oglio Editore.