martedì 28 febbraio 2012

Antonietta Fulvio. Cesare Piscopo e le corrispondenze tra colore e parola






Immagini sospese tra l'azzurro del cielo e gli abissi del mare - echi lontani di poesia si infrangono come onde e segrete corrispondenze nascono tra colore e parola. Sono dipinti, quelli di Cesare Piscopo, che raccontano il rapporto intimistico dell'uomo con il mare. Un rapporto universale ed eterno come il verso della Poesia che a volte nasce dall'osservazione del moto delle onde: la metrica allora è il tentativo di ripercorrerne il ritmo, di inseguire la risacca struggente come il pensiero che ritorna ciclico su se stesso, sui ricordi. Come nei fondali silenziosi, dove finisce la luce ma scrigno di inimmaginabili tesori, il poeta ricerca la sua verità, il senso dell'esistenza e l'armonia del cosmo. Non è dopotutto il mare - il liquido amniotico - che troviamo fuori dal grembo materno nel mondo? Un mondo dominato dalla forza della natura come dalla forza dei sentimenti imprevedibili, ma essenza della vita stessa: Ti amo fino al punto/ di scambiare i tuoi silenzi/ per messaggi d'amore, scrive il poeta-artista e non è un caso che guardando le sue tele ci si immerga nello spazio-colore immaginando il silenzio interrotto solo dai battiti del cuore, dal respiro o dal vento o dal fragore delle onde - e il rimando al mare è inequivocabile. Indispensabile, forse.
Come lo stagno di Giverny per Monet o la tempesta per Turner.
La pennellata di Cesare è fluida e leggera anche quando gli accostamenti tonali diventano marcati e i contrasti cromatici, ora intensi ora al limite dell'etereo, interpretano stati d'animo mutevoli come i colori del mare. Quel mare che ha la luce del Salento ma potrebbe essere l'Oceano... Il mare, luogo magico dove affidare pensieri racchiusi nel vetro di una bottiglia, lasciati in balia del destino. Quel mare che è depositario di niente o di verità nascoste ma che è onnipresente, interlocatore o spettatore, nelle tele come nelle liriche di Cesare Piscopo: ogni dipinto è una poesia sussurrata, ogni poesia è un dipinto dove perdere lo sguardo e ritrovare la propria anima. Così come la voglia di vivere e il desiderio di amore suggellato in una promessa: Ti porterò al mare/ di notte/ Osserveremo onde silenziose/ Poserò le mie mani/ sui tuoi fianchi/ sfiorerò i tuoi capelli/ leggeri/ Saremo acqua e roccia e/ nuvole sovrapposte/ Poi guardando nulla/ penseremo a nulla/ e d'amore ci ubriacheremo.


Antonietta Fulvio (introduzione alla mostra di Cesare Piscopo: Messaggi dal mare; Beauty and Book Salon - Lecce 2007)


















martedì 14 febbraio 2012

Mario De Marco. Introduzione alla pittura di Cesare Piscopo





La produzione pittorica di Cesare Piscopo annovera oltre un trentennio di attività sempre animata dal demone della ricerca che, se pur si è inscritta e si inscrive nell’ambito di alcune espressioni artistiche “moderne”, appare sicuramente connotata da un coerente spirito anticonvenzionalistico. Il retroterra del pittore di Parabita è documentato dalle autorevoli annotazioni critiche di Aldo e Giancarlo Vallone, di Massimo Guastella e di Marina Pizzarelli, la quale più degli altri ha seguito l’iter del nostro artista.
Le più recenti carte inchiostrate del nostro autore (acquerelli e guazzi) hanno sviluppato senza soluzione di continuità la ricerca di cui accennavo innanzi, una ricerca, è bene premetterlo, che scarnifica le stratificazioni del proprio vissuto, quell’esperienza interna, insomma, che filtra ed elabora la realtà, ossia i dati oggettivi e, quindi, esterni. Da qui emerge l’individuale visione del mondo di Cesare Piscopo, un artista inquieto, tormentato, sicuramente pessimista.
Coloro che precedentemente lo hanno recensito sono stati pressocchè unanimi nel sottolineare la condivisione, da parte del Nostro, di certi spunti del pensiero esistenziale del lontano Oriente, e ciò per alcuni aspetti mi induce a fare qualche accostamento al pensiero di Schopenhauer, a quel Weltschmerz (dolore cosmico) che incombe su tutto e su tutti, a quel nostro essere ostaggi del samsara (apparenza ingannevole), di cui potremo liberarci anche con la creatività artistica onde conseguire, finalmente, il nirvana, ossia lo stato di essere in cui vi è la cessazione del dolore.

Mario De Marco. Introduzione alla mostra di pittura di Cesare Piscopo - Raggio Verde – Lecce, 1998.








martedì 7 febbraio 2012

Maria Rosaria Pascali. L'urlo e il sogno di Cesare Piscopo





Non sono un critico “laureato”. L’urlo e il sogno di Cesare Piscopo non potrò sistemarli con una delle tante e paludate cattedratiche filosofie dell’estetica che rinchiudono in nicchie precostituite l’opera pittorica, il verso, il canto. Ho solo un cuore che sente. E avverte con animo turbato e commosso. Questo forse basta per Piscopo. Perché l’analisi consueta gli darebbe solo etichette che lo attaccherebbero ad un chiodo come si fa con una farfalla da collezione. Lui cerca altro. Un cuore appunto a cui far sentire quella vibrazione assordante che lo tormenta. Egli è l’uomo che tenta, nonostante l’apparente fragilità dell’esistenza, l’antropomorfo che anela a diventare angelica farfalla, il “faber” che costruisce dalle macerie della condizione umana.
E’ vero. Non c’è pace nell’arte di Cesare Piscopo. C’è invece la febbrile, urgente ricerca di una identificazione dell’anima, l’eterna domanda sull’essere, un rapporto, a volte ironico e grottesco, a volte inquietante ed esasperato, di amore – odio verso tutto ciò che è corpo, quindi materia che imprigiona, che rende mortali. Eppure la bravura di questo “difficile” artista sta nel riuscire a trasmettere emozioni comunque positive. Comunque. Nonostante la rappresentazione di figure distorte, di immagini trasfigurate, di paesaggi disperati. Non c’è opera di Piscopo che non lasci uno spiraglio di luce, e la sua ricerca, in fondo, trova in se stessa una risposta al travaglio interiore dell’artista e quindi, più in generale, dell’uomo: una meravigliosa unità dell’immagine creativa, il raggiungimento della perfezione assoluta nell’imperfezione relativa. In questa dimensione le forme non hanno più importanza se non per tracciare una linea, immaginaria, della diversità – unità dell’universo. Ecco allora che nei suoi paesaggi gli alberi diventano corpi (annullati spazio e tempo), i rami braccia protese verso uno sfondo che altro non è (e lo disvelano i colori) che la continuazione dell’opera creativa che si è fatta materia. Quella materia che Cesare Piscopo “imprigiona”, immaginando volti e figure, nelle sue ricorrenti bordature nere ma che nei paesaggi di colpo si scioglie, scivola verso l’orizzonte, liberata finalmente da ogni tipo di vincoli.
Se la continuità tra volti, figure e paesaggi corre sul filo di un unico, travagliato, percorso interiore, teso alla ricerca della pura presenza, questo non significa aver esaurito l’esplorazione pittorica dell’universo dell’artista. Altre zone d’ombra vanno messe a fuoco per comprendere appieno l’arte di Cesare. E sono proprio i paesaggi a fornirci un’altra, violenta, chiave di lettura. E chi ritiene che Piscopo privilegi a questo tema quello sulla condizione umana dovrà ricredersi. La sua produzione più recente è composta da decine e decine di scorci salentini. “Non ho mai abbandonato questo tema”, ammette lo stesso Piscopo, “anzi in esso mi sono sempre rifugiato quando la ricerca e la sperimentazione sulla condizione umana diventavano troppo drammatiche, sfibranti”. Già. E’ nella raffigurazione – questa volta reale – dell’ambiente che Piscopo ritrova finalmente un po’ di serenità: ”Lascio sempre uno spiraglio di luce nei miei paesaggi, anche in quelli più cupi”, spiega egli stesso che ammette di amare questo soggetto “forse anche più dei volti e delle figure”.
Proprio nei paesaggi emerge l’ ”altro” Piscopo. E neanche questa volta vi si può ritrovare l’uomo mite, semplice e schivo quale appare agli occhi di chi abbia un approccio con la sua persona. Questo Piscopo è tutta un’altra cosa: argento vivo, ribelle, guerriero. Nel suo acceso meridionalismo, descrive un Salento che non vuole rassegnarsi al suo destino di dominato, che non vuole e non sarà mai addomesticato. Al tempo stesso, descrive il suo stato d’animo. Di artista che sa di vivere isolato in una provincia sorda, impenetrabile, che sa che qui vivrà da emarginato, incompreso, che la sua terra gli sarà (forse) sempre matrigna. E nonostante questo decide di non arrendersi, di non appiattirsi, soprattutto, di restare. Cesare allora diventa “il ribelle”, ai suoi acquerelli si sostituiscono gli oli, i colori si fanno più intensi, violenti, la materia vibrante, il pennello diventa spada che ferisce, smuove, agita gli eventi. Il guerriero si è svegliato, le pietre sono diventate punti fermi, calamite che impediscono ogni fuga, il mare tempestoso, l’orizzonte rosso fuoco. E’ una lotta all’ultimo sangue fra gli elementi. Poi il turbine comincia a placarsi, sullo sfondo una luce gialla che indica che la tempesta sta per cessare. Per un attimo ovviamente. Perché la natura, e con essa l’animo umano, non può far sosta. Ma il prodigio tornerà a compiersi. Piscopo griderà ancora il suo dolore e dopo una nuova lotta tornerà e rischiararsi dentro. Misteriosamente. “In assenza di parole, mi guardo intorno / Solo dolore. Ma poi: “Sottili fantasmi di fumo / Alberi bagnati di terra /Una luce argentea / serena avvolgente / ci illumina dentro”, dice egli stesso in due sue poesie tratte dal volumetto “Fili d’erba”. L’essenza, forse, è tutta qui.
Perciò non chiedetemi di dare un nome al sogno di Cesare Piscopo, non ne ha bisogno. I suoi segni invocano l’esistenza che fa pensare al Giobbe luetico, impaziente sotto l’ulcerazione dolorosa dell’umana follia che gli grava le spalle. O evocano l’invito del fratello che disse all’altro fratello: “Andiamo ai campi”. Cioè la tragedia che stordisce o annienta, o da cui si esce con eroica tristezza per costruire ciò che altri hanno distrutto. Legato in una caverna, condannato a vedere solo ombre sulla parete, ha rotto i ceppi ed ha guardato la luce. Poi l’ha rubata a dio e riverberata sulla sua tela per darla agli uomini. E non è morto.

Maria Rosaria Pascali (1999)











Giancarlo Vallone. L'esperienza grafica di Cesare Piscopo





Ho esaminato con estremo interesse la nuova esperienza grafica di Cesare Piscopo, affidata ad una serie di carte inchiostrate da multiformi gradazioni di colore che si espandono senza disegno preordinato. La casualità della espansione degli inchiostri è però bloccata o pilotata fino al raggiungimento di una forma significante, e dunque di una cifra della realtà essenzialmente psichica, capace forse di ambientarsi logicamente, cioè nell’interpretazione, agli ideogrammi orientali o ad ancestrali pittogrammi, ma senza, mi pare, vera vocazione simbolica; di forza insomma, quasi esclusivamente individuale, ma temperata, almeno spesso, da una canalizzazione (prescelta, precostituita) dall’uso di tonalità di colore delicate e degradanti. Questo lirismo di Piscopo ha dunque, come sempre, funzione educativa; presiede, allevia, medica il conflitto delle pulsioni. Indica, inoltre, più in profondità, la nuova grafica di Piscopo e il rifiuto, così evidente, del figurativo (già imminente in alcune descrizioni della costa salentina e nelle figure umane): è, mi pare, nell’individuazione del colore che viene risolto, almeno in questa fase di ricerca, il problema, dirò così, dell’essere della forma. Il colore diviene una specie di sonda “ontica” (evito di dire “ontologica”) in modo certo più audace, benché non isolato, di quanti seguono la STESSA VIA poggiando più comodamente su una progressiva rarefazione del figurativo. Viene meno la connessione classica in pittura tra forma, oggetto e colore.
Finchè la forma fu legata all’oggetto, al reale, finchè fu “vera”, le ragioni del colore erano del tutto iscritte in tale relazione di identità. Fu poi proprio al colore e alle ricerche su di esso che spettò il compito di segnare le “scansioni” del “moderno” e la progressiva perdita di valore, nella forma, dell’oggetto, lungo appunto le variazioni della cifra colorica. Ora sembra, e non solo in Piscopo, che spetti al colore di assorbire nel suo apparire grafico ogni capacità genetica dell’essere formale; cioè delle forme in quanto capaci e matrici d’essere. Questa sorta di neotomismo d’avanguardia (“forma est quae dat esse rei”) non cade, con Piscopo, nel puramente casuale (che non significa non figurativo) né nel puramente informale: concetto questo che nel porre il problema della sua esistenza anche solo visiva, non ha d’altra parte mai significato assenza di forme. Piuttosto ha indicato la questione (sostanzialmente linguistica) della forma delle non forme (veristiche) o, semplicemente, della forma delle forme (grafiche). L’esperienza di Piscopo, tuttavia, non sembra ancora pienamente strutturale o linguistica; non pare dotata di semantica veramente autonoma o interna. La sua ricerca è, ancora, una domanda sull’essere; è, forse, una nostalgia dell’essere esplosa oltre il figurativo, e nella sua mancanza.

Giancarlo Vallone  (1995)





lunedì 6 febbraio 2012

Giancarlo Vallone. La figura umana nella pittura di Cesare Piscopo






Già alla fine del 1995 scrissi su Cesare Piscopo un’impressione legata, quasi esclusivamente, agli inchiostri su carta che mi sembravano ispirati, dirò così, all’apparentemente informale. In realtà un giudizio sulla pittura di Piscopo è possibile solo attraverso la scoperta del suo modo intellettuale di essere pittore. La visita del suo studio consente un’attendibile valutazione del rapporto tra massa sterminata di lavori preparatori e opera finita. Consente, soprattutto, di mettere a fuoco il fondo fervente della sua vocazione pittorica e l’importanza, centrale nella sua formazione, dell’espressionismo in specie tedesco, suggellata, quasi simbolicamente, dal suo incontro giovanile con Kokoschka, al quale Piscopo ha recentemente dedicato un “omaggio”, nell’aprile del ’98, in Casarano. Sopravvissuti alle volontarie eliminazioni, e quasi celati tra schizzi, inchiostri, bozze, libri, appunti di lavoro, emergono alcuni paesaggi degli anni Settanta, già non riproduttivi, ma anzitutto intesi quali prove del tratto o controllo del segno e dell’esattezza disegnativa, e che, non a caso, tendono a dissolversi per una più essenziale rappresentazione. E’ questo il filo che orienta il ventennio seguente di ricerca pura, di preparazione continua ad un universo evidentemente espressionista. In un appunto della fine degli anni Ottanta, Piscopo riflette: “volti e personaggi appaiono, a chi sa osservare, in dissolvenze di linee e di macchie non programmate, e disposte senza un ordine apparente”. I materiali erano allora, e sono oggi, penna, matita colorata, inchiostri, tempere, colori ad olio, acrilici, soprattutto acquarello perché, evidentemente, Piscopo ha bisogno di segno rapido per fissare l’immagine. Questo rivela che non è l’oggetto, qualunque sia, a definire la sua pittura, ma il modo e il momento del suo essere colto dal soggetto. E’ la presenza del soggetto ad affermarsi nel dipingere, e, come in ogni espressionismo, l’affermazione è forte: è il soggetto a decidere il senso dell’incontro e l’essenza della cosa. Dal 1989 al 1992, la sperimentazione raggiunge alcuni punti intensi di maturazione. Una ricca quantità di disegni a matita colorata e a penna, credo sconosciuti, sviluppa labirinti  e intrichi; ma nel grumo dei segni (linee e colori) s’intravede un volto, certo trasfigurato, nemmeno caratterizzato; ma presente. E’ soltanto un inconscio rifiuto del puro astrattismo, un’adesione istintiva e residuale al figurativo, o anche una domanda sull’essere? Lo stesso dubbio ci offrono i (più rari) esperimenti di collage (del ’90) che evocano nell’insieme immagini grottesche, cioè appunto un umano trasfigurato, senza che sia facile, anche qui, cogliere il senso di questa pittura i cui lemmi affondano sempre nell’espressionismo, ma con evidente valenza astratta. E’ Piscopo stesso a svelarci qualcosa; egli dice ancora: “il brutto (anatomico), l’orrido, il grottesco, sembrano essere il risultato di un tentativo di ricerca analitica condotta con gli strumenti pittorici, all’interno del mio io”.
Qui c’è anche l’esigenza psichica di capire il movente della propria pittura, del proprio presentare l’oggetto in un certo modo. Lo scavo dell’io e la scelta espressionistica sono vie convergenti anzitutto nella ricerca di un senso per la vita, che intanto rivela  inquietudine e dubbio, quantità di studio e passione sperimentale. Direi che alcuni disegni a matita del 1992 provano la radicalità del dubbio ontologico di Piscopo, e già nella differenza delle tecniche. Profondi interventi di gomma cancellano il tratto delle figure, le riducono all’essenza figurativa (come una “radiografia dell’umano”, afferma l’autore) e tentano di portare alla luce lo scavo interiore. Poi un unico tratto nero deciso, largo, a pennello, borda dall’esterno la figura, come se intendesse fermare l’immagine, affermare la presenza d’un interno, dividerlo dal fondo. La necessità di questo punto fermo, per quanto discusso e laborioso, a me sembra centrale per capire l’impegno di Piscopo, pur nella congerie delle sperimentazioni. Nella produzione del 1994 non mancano approcci al surrealismo, forse a quello fabuloso di Mirò, ma già nell’uso del colore, istintivo ma non mai casuale, riemerge la vena figurativa, graduata in un tracciato ammiccante dal complesso dei segni; fino alla formalizzazione estrema, nella quale la figura è data da rigidi segni neri: austere affermazioni di presenze pure, indistinte, senza carattere alcuno. Siamo all’ermetismo puro, e cronologicamente siamo alle soglie del 1995, quando in alcune mostre personali, accolte con giudizi vari editi in “Apeiron”, Cesare Piscopo affronta decisamente questa sorda provincia salentina con una serie di inchiostri su carta che rompono, a me sembra, la sua produzione espressionista. Non confonderei in una generica idea di sviluppo l’ermetismo figurale del ’94 e l’estrema rarefazione del segno, esclusivamente colorico, di questi inchiostri. Io vi notai, l’ho detto, solo un apparente approdo informale e, piuttosto, una ‘nostalgia dell’essere esplosa oltre il figurativo’. L’immagine più felice è quella di ‘forme organiche’, di Marina Pizzarelli, che estende un titolo scelto da Piscopo stesso. Si trattava, infatti, di una domanda sulla possibile essenza elementare dell’esistente, e non solo umano, come svela una citazione di Aime Cesaire. Questa cesura nel modo pittorico, una tendenziale rottura nell’espressionismo, mi sembra dovuta anzitutto alla radice ‘ontologica’ della pittura in Piscopo: il suo isolamento provinciale pone in discussione la possibilità stessa di fondare la comunicazione; e nasce (pittoricamente) la ricerca sul gene comune dell’esistente e della vita, e della partecipazione. E’ dunque una ricerca per la vita: che l’arte abbia risposto o no; che la forza morale di Piscopo sia esaltata dal successo di questa esperienza, o piuttosto dal suo fallimento, egli è tornato presto all’espressionismo, e figurale, con la volontà (tipicamente espressionista) di legare l’essenza degli oggetti alla propria pittura, e forse di educare all’arte. Già nel 1966 tenuissimi sintomi anatomici affidati ad acquerelli rosa incarnano, quasi, la figura nelle costruzioni ‘organiche’ pensate l’anno precedente. Questo superamento della fase ‘organica’ a me pare piuttosto un abbandono della ricerca sul gene comune dell’esistente. Il ritorno all’espressionismo, ch’è già cosa fatta nel ’96, esprime, io credo, la raggiunta consapevolezza che l’appartenere dell’esistente a comuni radici biologiche non risolve, e forse drammatizza, la questione morale della partecipazione. L’incomunicabilità, l’incomprensione, la solitudine, forse ora sembrano, a Piscopo, connotati sostanziali dell’esistenza morale. La bordatura nera che, nel 1995, divideva le figure dal fondo, ora le ingloba, diventa un unico, denso fondo nero. In quasi tutti i nuovi acquerelli del 1996, la figura, o la serie di figure, occupano una spazio dominato dal fondo. Vale ad esprimere l’unicità dell’esistenza, o anche la sua diversità, irrilevante in relazione all’assoluto? Mario De Marco ha notato questo orientamento esistenziale dell’espressionismo di Cesare Piscopo. Un acquerello dello stesso anno propone una figura non solo manifestata sul fondo, ma schiacciata da esso, ed è intitolata ‘Angoscia’. E’ forse una citazione dalle celebri xilografie (esposte a Firenze nel 1964) di Munch che è, tra i padri dell’espressionismo, il più sensibile al tema dell’esistenza, ed un contemporaneo di Heidegger. Tuttavia questa produzione di Piscopo, solo in parte  nota, e cioè nota in quella parte esposta a Maglie nel 1997, ha valori diversi di esistenza, e citazioni più sottili da cogliere. Un quadro, ”Cellule”, ripropone il tema “organico”, ma calato definitivamente nell’umano: solo volti tondi, che si affrontano circolarmente sugli immutabili toni neri del fondo: monadi irripetibili e indistinte (cioè uguali) nel loro essere gettate nel mondo. Poi, però, il tratto dei volti si irrigidisce, si drammatizza, riprende l’antica sagoma grottesca; diviene “Maschere”: tre volti definiti, nel loro emergere titanico dal nero, quasi esclusivamente dal contorno spigoloso, esaltato, negli interni, di giallo e di rosso, con effetti di grande tensione. Ora le maschere, come in Ensor (cioè nell’idea di Ensor) sono metafora di fungibilità, sostituiscono ogni possibile tipologia di volto, in ragione di un comune destino: lo spegnersi nel nero. Grottesca o maschera, essa vale come archetipo, o simbolo; come cifra d’ogni esistenza che placa il dramma dell’incomunicabilità nella coscienza della profonda eguaglianza che accomuna le diversità. Non è l’unico messaggio. I “Volti”, sempre del 1996 (ora in collezione privata), sono assai più caratterizzati; sono forse un uomo e una donna, come in un celebre acquerello di Nolde, e con le stese tonalità di Nolde: potentemente espressivi, l’uno scompare guardando l’altro per forza ipnotica non della forma, ma del colore differenziale. Uomo e donna qui (e spesso in Piscopo) tendono, sul fondo nero del nulla, l’unico ponte tra individui, fatto di istinti, o di amore. In una sua poesia di “Fili d’erba”, il pittore dice alla donna: “immenso grigio ci divide / e poche foglie bagnate di rosso / come segnali appesi”.     
                                                                                       

Sono temi che Cesare Piscopo articola anche con una lunga fedeltà ai materiali. Egli, spesso, usa mescolare i colori all’acquerello con il bianco coprente o il nero di china. Così, se da un lato il colore cede un poco della sua trasparenza, dall’altro acquista in tensione e in contrasto, caricandosi di densità emotiva. Meno frequente è l’uso dei colori ad olio o degli acrilici; eppure, quando li adopera, il dominio dell’ispirazione è totale. L’idea centrale, il destino comune, l’heideggeriano essere per la morte, è reso in “Disfacimento” (un acquerello esposto a Casarano nel 1998) con una penetrazione del fondo nelle costole degli umani e, forse più discorsivamente, in “Danza macabra”, ma è imprudente farsi suggestionare dai titoli che sono, per definizione, pretestuosi. C’è molta maturità in questa pittura; anche il graduale abbandono dei fondi neri prova il saldo sviluppo della poetica di Piscopo e l’aggressività di una raggiunta convinzione, che vuole imporsi con tutto il suo mondo. Come in ogni autentico espressionismo, la volontà, l’io, è dato nel colore. Anzi la forma, specie se figurale, è pretesto del colore; e questo decide dove apparire, nella figura, per darle un senso, per manifestare. Pochi sono i paesaggi, o le nature morte in Piscopo: egli dichiara tutta la sua attenzione alla condizione umana, nel senso consapevole, e senza vana speranza, che s’è detto. La figura è affidata ad un segno essenziale; annidata in un solo tratto, in un cenno dominante che dà il modo del corpo nella massima tensione. E’ però il colore, assolutamente inumano, lontanissimo da esigenze ritraenti, estraneo a legami anatomici, che irrompe con forza nei margini essenziali del corpo, a caricarli infinitamente di espressione; spesso a crearla, superando l’occasione del disegno. Indico solo l’acquerello “Due nudi sdraiati” che dà grande senso di profondità con la posizione alternata dei corpi, e, ancora, “Amanti” che chiude tra parentesi la disperazione per abbandonarsi almeno un attimo, con toni chiari e armonici, alla fortuna, non comune, delle affinità elettive.

Giancarlo Vallone (1998)



            








Giusy Petracca. Note su Cesare Piscopo poeta







Nato  a Parabita (LE), Cesare Piscopo è pittore, poeta, scultore. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano, completando gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce. Ex docente di Educazione Artistica.
Egli alterna periodi di intensa attività espositiva ad altri di studio e di ricerca che, come ha scritto Mario De Marco,”appare sicuramente connotata da un coerente spirito anticonvenzionalistico”.
Ha compiuto viaggi di studio in diverse città italiane ed europee e le sue opere figurano in collezioni pubbliche e private. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: Fili d’erba (1996), Dal profondo Sud (1998) e Il mare dell’amore (2006), Messaggi dal mare (2007), e l’antologia Sotto le silenziose nuvole un mare di pensieri (2009).
La poesia e la pittura, due diversi eppure complementari “linguaggi” per comunicare con il mondo. Molteplici espressioni di un unico modo di sentire l’arte e la vita.
“Cesare – si legge nella bellissima prefazione di Dal Profondo Sud, a cura di Mario De Marco, -  è un uomo che sa guardarsi dentro e attorno, riesce ad interrogare e ad interrogarsi, tuttavia il suo porgere è semplice, è privo di spocchia e si palesa con umiltà e semplicità, forse con la speranza di ottenere risposte, forse perché crede nella possibilità della trasmutazione di ognuno e di tutti”.
I suoi versi sono infatti semplici ma raffinati, delicati ma intensi, e raccontano stati d’animo con la stessa levità  del pennello sulle sue tele, dove la luce del paesaggio salentino ma anche l’essenza vera di questa terra viene sublimata e raccontata. Sono stati d’animo, sguardi sul mondo e riflessioni sull’esistenza umana che sfociano talvolta in pessimismo, ma sono anche pregni di amore per la bellezza, per la natura, per la compagna della propria vita, e per la donna in genere. In un mondo sempre più stereotipato Piscopo con estrema naturalezza sa parlare di amore e soprattutto ama e sa commuoversi: le onde del mare, un tramonto, la luna che illumina il cielo stellato sono emozioni e segni tangibili di una speranza, quella di un abbraccio universale:

Questo mare ci circonda
in un unico immenso abbraccio

Isolati noi ci amiamo
Immensamente ci amiamo!

L’amore infatti è la molla di tutto; fonte di dolore come di illusione, di gioia come di atavici dubbi: “Ho smarrito la ragione vivendo/ o forse ho ritrovato amando/ la ragione di vivere”. Il canto del poeta non sa trovare risposte ma con i suoi innumerevoli interrogativi ricerca continuamente il senso della vita.

Giusy Petracca