lunedì 12 marzo 2012

Mario De Marco. L'inquietudine esistenziale nella pittura di Cesare Piscopo




La produzione pittorica di Cesare Piscopo annovera oltre un trentennio di attività sempre animata dal demone della ricerca che se pur si è inscritta e si inscrive nell'ambito di alcune espressioni artistiche, sicuramente "moderne", appare connotata da un coerente spirito anticonvenzionalistico. Il retroterra del pittore di Parabita è documentato dalle autorevoli annotazioni critiche di Aldo e Giancarlo Vallone, di Massimo Guastella e di Marina Pizzarelli, la quale più degli altri ha seguito l'iter del nostro artista.
Le più recenti carte inchiostrate del nostro autore (acquarelli e guazzi) hanno sviluppato senza soluzione di continuità la ricerca di cui accennavo innanzi, una ricerca, è bene premetterlo, che scarnifica le stratificazioni del proprio vissuto, quell'esperienza interna, insomma, che filtra ed elabora la realtà, ossia i dati oggettivi e quindi, esterni. da qui emerge l'individuale visione del mondo di Cesare Piscopo, un artista inquieto, tormentato, sicuramente pessimista.
Coloro che precedentemente lo hanno recensito sono stati pressocchè unanimi nel sottolineare la condivisione, da parte del Nostro, di certi spunti del pensiero esistenziale del lontano Oriente, e ciò per alcuni aspetti mi induce a fare qualche accostamento al pensiero di Schopenhauer, a quel Weltschmerz (dolore cosmico) che incombe su tutto e su tutti, a quel nostro essere ostaggi del samsara (apparenza ingannevole), di cui potremo liberarci anche con la creatività artistica onde conseguire, finalmente, il nirvana,ossia lo stato di essere in cui vi è la cessazione del dolore.
Considerando ancora sulla struttura psicologica di Cesare, mi sorge un altro accostamento, quello sul concetto di angoscia espresso da Kierkegaard, e le citazioni potrebbero ancora continuare per significare quella forte carica emotiva che si coglie nelle composizioni del Nostro, dove la desolazione e la solitudine appaiono emergere in maniera inquietante.
L'opera dell'artista di Parabita è di marca espressionistica, e non potrebbe essere altrimenti, ed essa si popola di immagini riconducibili ad una espressività primitivistica; ad archetipi scaturenti tuttavia non dal già visto, ma via via materializzatisi alla stregua di fantasmi o di ectoplasmi durante il travaglio onirico e in una sorta di trance che Cesare vive in maniera semicosciente per quel tanto che gli basta per assecondarsi e per guidare il pennello sulla carta. 
Per interpretare le rappresentazioni del nostro autore occorre procedere, come si suol dire, dentro e dietro il quadro. Non basta l'impressione momentanea che si riesce a cogliere, occorre, invece, decifrare il significato simbolico dei colori, dei toni scuri, forti e marcati, che inequivocabilmente denunciano quanto Sigmund Freud condensò nell'espressione: "elaborazione del lutto".
Come già accennavo, un forte dinamismo contraddistingue le carte inchiostrate di Cesare, il quale riesce a realizzare una originale dialettica tra colore e forme per esaltare l'energia potenziale e in atto degli ectoplasmi, che si muovono in spazi irreali e al di là di qualsiasi temporalità. Anche se la gamma cromatica e le figure deformate delle composizioni di Cesare sembrano raggelarsi e raggelare, contengono tuttavia un dinamismo energetico che sprizza oltre la definizione delle forme-colore, essendo quest'ultime anch'esse grumi cromatici che non si lasciano costringere dalle delimitazioni del segno.
In conclusione si può affermare che il nostro autore dipingendo trascrive la propria visione del mondo e della vita ed in questo assecondarsi, che a tratti sembra evocare le esperienze della telescrittura, compie un'incessante operazione catartica della quale fruisce pure lo spettatore che, con il pittore, partecipa empaticamente all'iter creativo.
Ho parlato di catarsi perchè, tutto sommato, se pur si coglie tanta angoscia nell'animo di Cesare Piscopo manca, per fortuna, lo stato di essere della disperazione, e ciò me lo fanno intuire gli scarsi spazi aurorali che, nonostante tutto, costituiscono un tenue ma tenace filo di speranza per un diverso rapporto con il mondo, ossia con se stessi e con gli altri.



Mario De Marco (Lecce, 1998)