Animo sensibile e
vibratile, Cesare Piscopo è conosciuto soprattutto come pittore, e solo dal
1996, con Fili d’erba, il pubblico lo apprezza anche nella sua qualità di
poeta. Ritengo necessario premettere che per meglio cogliere i motivi
ispiratori delle liriche del Nostro sia necessario e indispensabile operare una
lettura parallela delle sue “carte inchiostrate” e dei suoi versi, essenziali
sia per quanto attiene il linguaggio e sia, ancora, per quanto riguarda i
contenuti di indubbia matrice esistenziale.
Sotto il profilo stilistico appare inevitabile
l’accostamento di questa raccolta di versi con l’ispirazione dei proto
romantici anglo-tedeschi, non solo per gli accenti pessimistici, ma anche per
l’anelito verso l’infinito e il sublime, per lo scandaglio del proprio animo
nonché per il panico coinvolgimento degli elementi naturali.
Nelle poesie di Cesare si trovano
l’equilibrio e la misura dei termini, ma ciò non è prodotto né da un’operazione
fatta a tavolino né, tantomeno, dalla ricercatezza tesa a suscitare
qualsivoglia effetto sul lettore. Il canto scorre spontaneo, sicuro ed
immediato, sorge dalla consapevole visione del mondo e della vita che non si
irretisce nello sterile solipsismo ma, al contrario, si dona come personale
testimonianza di un vissuto che attraversa il dolore.
L’amore, gli affetti, la natura vivente e
palpitante, sprazzi di vita e di paesaggio salentino offrono i contenuti della
riflessione del nostro autore che, tra sogno e ricordo, tra impressioni e
meditazioni, con simboli, metafore e allusioni si rivendica, infine, lo spazio
ristretto per trarre a volte le proprie conclusioni le quali, spesso, hanno il
sapore aforistico.
Cesare è un uomo che sa guardarsi dentro e
attorno, riesce ad interrogare e ad interrogarsi, tuttavia il suo porgere è
semplice, è privo di spocchia e si palesa con umiltà e semplicità, forse con la
speranza di ottenere risposte, forse perché crede nella possibilità della
trasmutazione di ognuno e di tutti. Un pessimismo, quindi, che lascia via
d’uscita, un interrogarsi sull’esistenza che non trascura la possibilità di
meravigliarsi, di commuoversi, di dire sommessamente ciò che si agita dentro.
Ritengo che il nostro autore si faccia
interprete di quanto non siamo in grado di cogliere e di dire, credo che
proprio per questa ragione Cesare promuova una interessante coralità, l’ascolto
del lettore, poiché non poco ha da dire e da dare.
Mario De Marco
(prefazione al libro di poesie di Cesare Piscopo: Dal profondo Sud, 1998)
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