venerdì 20 gennaio 2012

Aldo Vallone. Due lettere a Cesare Piscopo





Nella produzione di Cesare Piscopo, nato a Parabita ma galatinese per ascendenze, raccolta dal 1973 ad oggi, cioè dal diploma dell’Accademia all’esercizio professionale, contano innanzitutto la varietà e la molteplicità delle esperienze. A fronte degli otto ultimi “pezzi”, in genere tempere acquarelli ed oli, si pongono centinaia di abbozzi disegni schizzi impressioni, che restano tutti e resteranno, forse, nelle gonfie cartelle da studente: un cammino breve ma intenso, fortemente cadenzato in ritmi e movenze, sottolineato da soste e ripensamenti. Perché quello che piace e giova e impressiona, in un giovane come Piscopo, è l’insistenza su temi e motivi, che si dispongono, spesso solo lievemente variando tra loro, senza fretta e senza concessioni alla bravura. L’immaginazione non è mai lasciata a se stessa, allo stato di spontaneità pura; ma è sorretta da lungo studio, rivolto a togliere o ad aggiungere qua e là un dettaglio prima di  tendere alla conclusione. E quando questa si raggiunge, un altro orizzonte si apre prospero e genuino. Può capitare che il dettaglio, espunto da una tempera perché visto come estraneo e ornamentale, non cada del tutto e riempia poi di sé una tela o un acquarello per realizzare un’altra idea in altro spazio. E l’una e l’altra si pongono decisamente dinanzi alla natura, all’uomo e alle cose. Non si descrive, né si canta, né si allegorizza. Piscopo ha imparato anche lui, come ogni giovane di avido ingegno, le tecniche più vaghe e perentorie d’oggi, i loro segreti e i loro artifici; nei disegni v’è lunga traccia, vivida e aperta come testimonianza; ma ha poi imparato, osservando per conto suo, a vivere le cose, dentro, al di là dei legami della scuola, a trovare anzi i veri segni nello stesso solco dei grandi maestri. L’astratto, il geometrico, il collage, in cui pure egli indulge con prove di buona mano nei primi anni, si dissolvono via via e assumono modi interi e propri: forma è allora sostanza. Le cose stanno lì e si piantano vigorosamente nel reale, partecipi del reale, pronte a fare storia con noi, a legare nella memoria tempo e spazio simultaneamente. Il tema è il mare, vario e costante insieme, sia che domini incontrastato, come in Lungo la costa Lo scoglio rosso La nave Plenilunio sul mare; sia che affiori ai margini di case e borghi ammucchiati, come in Novaglie; sia che si indovini, taciturno e immoto, oltre le arse pianure, come in Strade del Salento: una realtà piena e sognata, verghianamente sofferta più che goduta, umbratile più che meridiana, tesa in colori cupi, ma anche soffice di smorzate dorature come soavi folate di bambagia. La ricerca del colore (e dentro si coglie l’alta scuola del disegno) se da un lato esprime un’ansia superata  ma non repressa o una fatica redenta, da un altro quasi sempre ispira mite amore e serenante fiducia al di là della gioia solare e della cupa malinconia. E’ una forma-sentimento, un colore-stato d’animo, umilmente ma costantemente cercati, che ci riportano, almeno per tentazioni suggestive, alla lezione di Toma galatinese. (1978)





 
Rapido e intenso è il percorso artistico compiuto da Cesare Piscopo: più distanziate (e proprio a partire dai tentativi ardenti di fresca adolescenza) le prime prove (1963); più fitte, invece, e costanti, le ultime con le mostre a Lecce, Tricase e Otranto (febbraio e luglio ’95).
Ed ora, in questo primo autunno, appare una nuovissima serie di “composizioni” (inchiostri su carta), in cui il tratteggio, forte e delicato insieme, del passato è quasi tutto dissolto. Non v’è disegno; non vi sono soste o sospensioni di preordinata meditazione: v’è un istinto mobilissimo, che tenta di evadere da ogni limite, quasi un suggestivo abbandono alla casualità o al capriccio o anche al diletto che può dare il colore. Ed è questo che a me interessa maggiormente: ad esempio, quel rosso, spruzzato sul bianco-roseo della carta, acquista una vitalità inconsueta e toni d’immediato risalto.
Scompaiono le linee portanti, il ”figurato” dello stile precedente; ma dentro, pur nell’astratto più ardito e immaginoso, si può scovare l’ombra o il sentimento di una terrestre salentinità.
E’ questo, allora, un passaggio obbligato per future prove? Forse: ma così come sono (o come io leggo) queste composizioni, innovando, profondamente persuadono. (1995)





Tratto da: Aldo Vallone. Scritti Salentini e Pugliesi; a cura di Giancarlo Vallone – Mario Congedo Editore



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