Nella
produzione di Cesare Piscopo, nato a Parabita ma galatinese per ascendenze,
raccolta dal 1973 ad oggi, cioè dal diploma dell’Accademia all’esercizio
professionale, contano innanzitutto la varietà e la molteplicità delle
esperienze. A fronte degli otto ultimi “pezzi”, in genere tempere acquarelli ed
oli, si pongono centinaia di abbozzi disegni schizzi impressioni, che restano
tutti e resteranno, forse, nelle gonfie cartelle da studente: un cammino breve
ma intenso, fortemente cadenzato in ritmi e movenze, sottolineato da soste e
ripensamenti. Perché quello che piace e giova e impressiona, in un giovane come
Piscopo, è l’insistenza su temi e motivi, che si dispongono, spesso solo
lievemente variando tra loro, senza fretta e senza concessioni alla bravura.
L’immaginazione non è mai lasciata a se stessa, allo stato di spontaneità pura;
ma è sorretta da lungo studio, rivolto a togliere o ad aggiungere qua e là un
dettaglio prima di tendere alla
conclusione. E quando questa si raggiunge, un altro orizzonte si apre prospero
e genuino. Può capitare che il dettaglio, espunto da una tempera perché visto
come estraneo e ornamentale, non cada del tutto e riempia poi di sé una tela o
un acquarello per realizzare un’altra idea in altro spazio. E l’una e l’altra
si pongono decisamente dinanzi alla natura, all’uomo e alle cose. Non si
descrive, né si canta, né si allegorizza. Piscopo ha imparato anche lui, come
ogni giovane di avido ingegno, le tecniche più vaghe e perentorie d’oggi, i
loro segreti e i loro artifici; nei disegni v’è lunga traccia, vivida e aperta
come testimonianza; ma ha poi imparato, osservando per conto suo, a vivere le
cose, dentro, al di là dei legami della scuola, a trovare anzi i veri segni
nello stesso solco dei grandi maestri. L’astratto, il geometrico, il collage,
in cui pure egli indulge con prove di buona mano nei primi anni, si dissolvono
via via e assumono modi interi e propri: forma è allora sostanza. Le cose
stanno lì e si piantano vigorosamente nel reale, partecipi del reale, pronte a
fare storia con noi, a legare nella memoria tempo e spazio simultaneamente. Il
tema è il mare, vario e costante insieme, sia che domini incontrastato, come in
Lungo la costa Lo scoglio rosso La nave Plenilunio sul mare; sia
che affiori ai margini di case e borghi ammucchiati, come in Novaglie;
sia che si indovini, taciturno e immoto, oltre le arse pianure, come in Strade
del Salento: una realtà piena e sognata, verghianamente sofferta più che
goduta, umbratile più che meridiana, tesa in colori cupi, ma anche soffice di
smorzate dorature come soavi folate di bambagia. La ricerca del colore (e
dentro si coglie l’alta scuola del disegno) se da un lato esprime un’ansia
superata ma non repressa o una fatica
redenta, da un altro quasi sempre ispira mite amore e serenante fiducia al di
là della gioia solare e della cupa malinconia. E’ una forma-sentimento, un
colore-stato d’animo, umilmente ma costantemente cercati, che ci riportano,
almeno per tentazioni suggestive, alla lezione di Toma galatinese. (1978)
Rapido
e intenso è il percorso artistico compiuto da Cesare Piscopo: più distanziate
(e proprio a partire dai tentativi ardenti di fresca adolescenza) le prime
prove (1963); più fitte, invece, e costanti, le ultime con le mostre a Lecce,
Tricase e Otranto (febbraio e luglio ’95).
Ed
ora, in questo primo autunno, appare una nuovissima serie di “composizioni”
(inchiostri su carta), in cui il tratteggio, forte e delicato insieme, del
passato è quasi tutto dissolto. Non v’è disegno; non vi sono soste o sospensioni
di preordinata meditazione: v’è un istinto mobilissimo, che tenta di evadere da
ogni limite, quasi un suggestivo abbandono alla casualità o al capriccio o
anche al diletto che può dare il colore. Ed è questo che a me interessa
maggiormente: ad esempio, quel rosso, spruzzato sul bianco-roseo della carta,
acquista una vitalità inconsueta e toni d’immediato risalto.
Scompaiono
le linee portanti, il ”figurato” dello stile precedente; ma dentro, pur
nell’astratto più ardito e immaginoso, si può scovare l’ombra o il sentimento
di una terrestre salentinità.
E’
questo, allora, un passaggio obbligato per future prove? Forse: ma così come
sono (o come io leggo) queste composizioni, innovando, profondamente
persuadono. (1995)
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