L’ultimo contatto di Cesare Piscopo con il
mondo “visibile” delle forme, con la riconoscibilità dell’immagine, risale a
più di un anno fa, a certi suoi disegni a matita che rivelavano, nella
ragnatela intricata delle linee, nello sfumato ottenuto attraverso
cancellature, una figura umana. Ma già questa era ridotta a larva, a
ectoplasma, ad una sorta di insetto-uomo che appariva e scompariva nel bozzolo
di linee e macchie, richiamando alla mente certe drammatiche figure di Dubuffet
o di Giacometti, immagini scarnificate di estenuata spiritualità. E anche
laddove il rigore del bianco e nero veniva vivificato dall’apporto cromatico,
nelle tempere a colori dissonanti, espressionisti, i contorni neri, decisi,
alla Kirchner, riuscivano a malapena a trattenere ancora un’allusione alla
figura, prima della sua scomparsa totale, in immagini che rievocano quelle di
Egon Schiele o di Willem De Kooning.
Oggi
questo processo di progressiva rarefazione ed astrazione, da tempo avviato,
sembra essersi definito in una pittura che non rappresenta o descrive, ma
evoca, e di quei precedenti mantiene intatta la scelta della psiche. E’ come se
quelle ricerche avessero portato l’artista a varcare del tutto la soglia della
razionalità, per abbandonarsi e fluttuare in quell’universo anti-gravitazionale
nascosto – solo a saperlo vedere – in ciascuno di noi: così sulla tabula
rasa del foglio bianco aggallano forme pseudo-Kandinskiane, organiche e
fantasiosamente astratte, immagini campite da colori trasparenti e
contrappuntate da neri, in bilico tra una serie di rimandi semantici attinti
dalla reatà esterna e da quella interiore, luminose ed incorporee come flussi
di energia telematica.
Ideare
facendo, sembra essere il principio che oggi presiede alla pittura di
Cesare Piscopo. L’attenzione è rivolta al gesto, al segno, come immediati
referenti dell’anima e di una conoscenza che è intuitiva e profonda insieme,
capace di andare “oltre” il sensibile, fatta di percezioni sospese e confuse,
ma assolutamente determinanti. Così queste opere sono tabulae scriptae,
un agglomerarsi di tracce, una scrittura dell’anima.
All'origine di questo processo di astrazione sono le filosofie sottese
alle estetiche orientali, cui l'artista è interessato, quella dottrina Zen che
sul piano gnoseologico ammette un tipo di conoscenza assoluta e irrazionale,
diversa da quella intellettuale, una conoscenza soggettiva e non trasmissibile
se non attraverso il potere espressivo dell'immagine e le sue accezioni
simboliche.
Così
il linguaggio pittorico di Piscopo si svolge all'interno di un ritmo informale
a dominante gestuale cromatica e segnica, dove confluiscono una profonda carica
emozionale e la volontà di canalizzare in forma simbolica questa forza. Il
nucleo dell'azione pittorica sta nell'urgenza di esprimere un'emotività
gestuale che però riesce ad organizzarsi e permette alle immagini inconscie di
affiorare alla coscienza.
Si
potrebbe parlare di un processo psico-grafico meccanico che Piscopo
attiva sul supporto, secondo una modalità di operare che consente pochi
ripensamenti, si affida alla casualità, e lascia ampio margine
all'immediatezza, alla spontaneità della visione.
Così
sul piano dell'opera si modulano urti e accordi allo stato puro, talora sospesi
nel loro principio di gestazione e lasciati quasi in abbozzo per esprimere
l'insorgere di un pensiero che si manifesta in lampeggiamenti.
Colori ombrosi affondano e colori luminosi affiorano in una sintassi
scorrevole, in una mobilità di impianto espressivo che si muove per variazioni
di andamento e trasparenze.
C'è
una naturalezza della grafia che l'artista tende a controllare elaborando dei
nuclei di resistenza che rallentano e raffreddano la corsa. Agli azzurri, ai
rossi, ai gialli è affidato il compito di generare le condensazioni più
intense; i neri (linee, gocciolamenti) corrono sugli sfondi o s'insinuano come
punte di diamante nelle maglie di quei microcosmi luminosi, mentre improvvisi
"buchi neri" creano profondità che attirano l'occhio in una sorta di
ipnosi percettiva, rivelando la possibilità di un "oltre" oscuro ed
inquietante.
Dalle suggestioni dell'arte orientale deriva il gusto per l'asimmetria,
l'elegante calligrafismo ai limiti dell'ideogramma, il valore del segno e il
fascino dell'assenza, del vuoto, contrapposti all' horror vacui dell'arte
occidentale.
Il
rapporto con la carta, materiale vivo, si respira continuamente attraverso
questi segni che spesso consentono interstizi e molto spazio intorno, che
lasciano respirare il lavoro: il supporto diviene così parte integrante di una
ricerca che, se è veloce nel tratto, non lo è affatto nel processo creativo,
frutto di meditazione.
Così
queste carte si presentano essenziali, pervase da una leggereza che talvolta fa
pensare al sogno, al silenzio, talaltra propone una resa visiva di armonie,
cadenze e contrappunti di tipo musicale.
Ma è
soprattutto il senso di una sottile ambiguità di lettura a scaturire nelle
opere di Piscopo, sorta di criptogrammi in cui si può scorgere tutto e nulla,
animali, nuvole, cieli, galassie remote o pure forme astratte che danno
l'impressione di un assoluto sganciamento.
Ed è appunto questa la metamorfosi sciamanica della sua pittura: movimento di traslazione della materia in costellazioni senza peso.
Marina Pizzarelli (dal catalogo delle mostre personali di Cesare Piscopo a Tricase - Biblioteca Comunale e a Otranto - Museo Diocesano; 1995).
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