giovedì 26 gennaio 2012

Marina Pizzarelli. Ideare facendo






L’ultimo contatto di Cesare Piscopo con il mondo “visibile” delle forme, con la riconoscibilità dell’immagine, risale a più di un anno fa, a certi suoi disegni a matita che rivelavano, nella ragnatela intricata delle linee, nello sfumato ottenuto attraverso cancellature, una figura umana. Ma già questa era ridotta a larva, a ectoplasma, ad una sorta di insetto-uomo che appariva e scompariva nel bozzolo di linee e macchie, richiamando alla mente certe drammatiche figure di Dubuffet o di Giacometti, immagini scarnificate di estenuata spiritualità. E anche laddove il rigore del bianco e nero veniva vivificato dall’apporto cromatico, nelle tempere a colori dissonanti, espressionisti, i contorni neri, decisi, alla Kirchner, riuscivano a malapena a trattenere ancora un’allusione alla figura, prima della sua scomparsa totale, in immagini che rievocano quelle di Egon Schiele o di Willem De Kooning.
Oggi questo processo di progressiva rarefazione ed astrazione, da tempo avviato, sembra essersi definito in una pittura che non rappresenta o descrive, ma evoca, e di quei precedenti mantiene intatta la scelta della psiche. E’ come se quelle ricerche avessero portato l’artista a varcare del tutto la soglia della razionalità, per abbandonarsi e fluttuare in quell’universo anti-gravitazionale nascosto – solo a saperlo vedere – in ciascuno di noi: così sulla tabula rasa del foglio bianco aggallano forme pseudo-Kandinskiane, organiche e fantasiosamente astratte, immagini campite da colori trasparenti e contrappuntate da neri, in bilico tra una serie di rimandi semantici attinti dalla reatà esterna e da quella interiore, luminose ed incorporee come flussi di energia telematica.
Ideare facendo, sembra essere il principio che oggi presiede alla pittura di Cesare Piscopo. L’attenzione è rivolta al gesto, al segno, come immediati referenti dell’anima e di una conoscenza che è intuitiva e profonda insieme, capace di andare “oltre” il sensibile, fatta di percezioni sospese e confuse, ma assolutamente determinanti. Così queste opere sono tabulae scriptae, un agglomerarsi di tracce, una scrittura dell’anima.
All'origine di questo processo di astrazione sono le filosofie sottese alle estetiche orientali, cui l'artista è interessato, quella dottrina Zen che sul piano gnoseologico ammette un tipo di conoscenza assoluta e irrazionale, diversa da quella intellettuale, una conoscenza soggettiva e non trasmissibile se non attraverso il potere espressivo dell'immagine e le sue accezioni simboliche.
Così il linguaggio pittorico di Piscopo si svolge all'interno di un ritmo informale a dominante gestuale cromatica e segnica, dove confluiscono una profonda carica emozionale e la volontà di canalizzare in forma simbolica questa forza. Il nucleo dell'azione pittorica sta nell'urgenza di esprimere un'emotività gestuale che però riesce ad organizzarsi e permette alle immagini inconscie di affiorare alla coscienza.
Si potrebbe parlare di un processo psico-grafico meccanico che Piscopo attiva sul supporto, secondo una modalità di operare che consente pochi ripensamenti, si affida alla casualità, e lascia ampio margine all'immediatezza, alla spontaneità della visione.
Così sul piano dell'opera si modulano urti e accordi allo stato puro, talora sospesi nel loro principio di gestazione e lasciati quasi in abbozzo per esprimere l'insorgere di un pensiero che si manifesta in lampeggiamenti.
Colori ombrosi affondano e colori luminosi affiorano in una sintassi scorrevole, in una mobilità di impianto espressivo che si muove per variazioni di andamento e trasparenze.
C'è una naturalezza della grafia che l'artista tende a controllare elaborando dei nuclei di resistenza che rallentano e raffreddano la corsa. Agli azzurri, ai rossi, ai gialli è affidato il compito di generare le condensazioni più intense; i neri (linee, gocciolamenti) corrono sugli sfondi o s'insinuano come punte di diamante nelle maglie di quei microcosmi luminosi, mentre improvvisi "buchi neri" creano profondità che attirano l'occhio in una sorta di ipnosi percettiva, rivelando la possibilità di un "oltre" oscuro ed inquietante.
Dalle suggestioni dell'arte orientale deriva il gusto per l'asimmetria, l'elegante calligrafismo ai limiti dell'ideogramma, il valore del segno e il fascino dell'assenza, del vuoto, contrapposti all' horror vacui dell'arte occidentale.
Il rapporto con la carta, materiale vivo, si respira continuamente attraverso questi segni che spesso consentono interstizi e molto spazio intorno, che lasciano respirare il lavoro: il supporto diviene così parte integrante di una ricerca che, se è veloce nel tratto, non lo è affatto nel processo creativo, frutto di meditazione.
Così queste carte si presentano essenziali, pervase da una leggereza che talvolta fa pensare al sogno, al silenzio, talaltra propone una resa visiva di armonie, cadenze e contrappunti di tipo musicale.
Ma è soprattutto il senso di una sottile ambiguità di lettura a scaturire nelle opere di Piscopo, sorta di criptogrammi in cui si può scorgere tutto e nulla, animali, nuvole, cieli, galassie remote o pure forme astratte che danno l'impressione di un assoluto sganciamento.
Ed è appunto questa la metamorfosi sciamanica della sua pittura: movimento di traslazione della materia in costellazioni senza peso.

Marina Pizzarelli (dal catalogo delle mostre personali di Cesare Piscopo a Tricase - Biblioteca Comunale e a Otranto - Museo Diocesano; 1995).





















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