E’ in perenne movimento, la mano e l’impronta stilistica di
Cesare Piscopo; quello dell’artista salentino è un lavoro che non conosce approdi fissi, ma che avanza senza
concedersi lunghe soste: non è un’onda che batte continuamente sulla stessa
spiaggia, ma una nube che solca cieli sempre nuovi pur restando
inconfondibilmente se stessa. Alla base di questa continua ricerca c’è l’amore
sconfinato per il colore, sia che esso venga utilizzato nelle tecniche più
tradizionali dell’olio e dell’acquerello e in soggetti classici come il
paesaggio, sia che divenga segno potente e aggressivo sulle figure o che si
spanda, veloce, libero e disinvolto in macchie acquose su carte ruvide o in densi agglomerati sulla tela. Ed è così che la ricerca fa una sosta, recentemente, sulla
materializzazione di paesaggi non convenzionali e densi di emozioni,
avvalendosi di una tecnica che non lascia spazio a potenziali imitatori: il
segno non esiste più; sono i colori stessi che, fondendosi tra loro sul
supporto, creano le forme. La materia pittorica non viene semplicemente
“depositata” sulla tela e lì abbandonata, ma è continuamente ripresa in più
fasi, sovrapponendo il colore strato su strato, dando vita a suggestioni
cromatiche intense, lasciando intravedere ciò che c’è “al di sotto” di ogni
passaggio del pennello in maniera analoga al distribuirsi di più superfici di
intonaco su una parete antica e vissuta. E’ il trasparire del colore degli
strati inferiori della pittura che illumina di vita l’intero lavoro rendendo
inedita la scelta di soggetti classici come i paesaggi. Dal caotico – ma non
casuale – sovrapporsi delle tinte si visualizzano gli elementi di una natura in
perenne mutamento; onde, alberi, cieli, rocce, prendono forma dalla materia
primordiale e si evolvono sulla tela davanti agli occhi dello spettatore: si
può parlare di una pittura in movimento; tutto nel lavoro di Cesare Piscopo, si
muove e si modifica: lo stile, i colori, le forme. Tutto si muove, ma in modo
tale da non rendersene subito conto, gradualmente. Esattamente come avviene nella natura stessa. Daniela Cecere
domenica 29 gennaio 2012
Nicola G. De Donno. Nota sulla ricerca pittorica di Cesare Piscopo
Nell’occasione della prossima mostra di suoi dipinti paesistici, provo a delineare, in Cesare Piscopo, la complessa personalità dell’artista, attingendo a sue attestazioni (le teoretiche e le creative) che riguardano l’arte. Tra le componenti che motivano i dipinti, la ricerca teoretica è intervenuta di conserva con l’estro espressivo. Lo assilla da almeno un trentennio. Si rilegga la dichiarazione di poetica figurativa, che ha premesso alla mostra leccese di sedici paesaggi nel marzo del 1971 (Galleria Elicona). In quella, Cesare, allora ventiquattrenne, già teorizzava “la natura come […] sensibile alle inquietudini umane”, ed “in comunicazione con l’artista”, il quale, “spinto da forze misteriose”, la invita “a partecipare al suo intimo dramma esistenziale”. Sicché “il paesaggio acquista valore di presenza che incombe su di noi col suo magico potere fascinatorio”. Dunque, l’artista nel dipinto deve tentare “il passaggio” da “una descrizione esteriore (…) alla presentazione di una visione allucinata attraverso un gioco di segreti accordi ritmici”. Al di là della romantica e rischiosa competizione con ineffabilità misteriose – “magico”, “fascinatorio”, “allucinata”, e degli inconvenienti insiti in quelle, resta valida, e basilare nel pensiero di Piscopo, la convinzione di una esistente nascosta consonanza vitale fra la natura e l’uomo (simboleggiandosi tuttavia la natura in “paesaggio” e l’uomo in “artista”). Consonanza nella quale ruolo positivo esercita “l’alito di vita” della natura, ruolo negativo, di rottura, il “dramma esistenziale” dell’uomo. La radice di una tale visione è riconoscibile nel mito suggestivo del paradiso perduto e della collegata utopia di una fattibile ricomposizione dell’Eden con la felicità sua: mito e utopia largamente diffusi nella cultura occidentale (non la popolare solamente) ebraico-cristiana. Aver attinto a questa nobile fonte culturale una giustificazione teorica, che non solamente risponde al suo personale anelito, ma è nel contempo capace di presa universale e socialmente, eticamente, pregnante, è indice di ispirazione artistica ambiziosa e totale. Ma comporta di fatto una ricerca tecnica incontentabilmente ansiosa di perfezionare la trasfigurazione naturalistica ed umana. Tanto da poter generare prostrazioni accanto agli entusiasmi.
Insegue infatti il conseguimento di una resa pittorica, in cui
ispirazione immediata e mediato controllo intellettivo, così della componemte
segnica come della cromatica, appaiono compenetrarsi spontaneamente, da
ispirazione, quasi per sintesi a priori, pur essendo tale armonia un
risultato di intenzionalità elaborative gnomicamente finalizzate. Credo che tale esigenza esprima il
“gioco di segreti accordi ritmici” indicato da Piscopo giovane nel 1971.
Tale esplicato concetto organico della sua pittura personalizza,
con un suo caratteristico lirismo, la collocazione di Cesare Piscopo entro il
variopinto panorama di sperimentazione degli stili che ha caratterizzato riccamente
le arti figurative contemporanee, a partire in sostanza dal simbolismo letterario,
e fino a giungere al rifiuto e distruzione della figura. Tale ricchezza di
stili è in parte non piccola legabile alla precarietà esistenziale, che il
tumultuoso processo delle scienze e delle tecniche, e purtroppo i conseguiti
squilibri etnici ed economici su orizzonte globale, hanno portato e continuano
a portare con sé. Come tante altre guise correntistiche nel risvolto formale,
questo malessere sociale influisce nel risvolto contenutistico della pittura di
Piscopo, non meno che in quella di maestri che lo hanno preceduto. Non poteva
non influire. Ma non la rende imitazione piatta. In particolare, è tipica di
Piscopo la compenetrazione ossimorica (l’ossimoro compare in più di un risvolto
dell’arte di lui) di angoscia e speranza, che nelle opere migliori chiaramente
ne marca il lirismo. Il disagio, sempre più allargantesi su scala mondiale,
impegna la sensibilità non solamente etica, ma anche estetica dell’artista. E
produce, accanto all’intento gnomico e all’emotivo, quello tecnico di poter
ottenere, dalla trasfigurazione del dipinto, una duplicazione, pur questa
ossimorica, della suggestività di una realtà paesistica, che venga colta non
solo nel momento che si fissa, ma anche nell’inesauribile suo fluire. Quanto
all’aspetto gnomico, non è fuor di luogo rammemorare che nella prima metà del
nostro secolo, ed anche più in qua, esercitava influenza semiegemonica nel
pensiero estetico, non solamente italiano, l’idea crociana della bellezza
artistica come valore per sua essenza autonomo, “distinto” da qualsiasi forma
di condizionamento pratico: arte per l’arte, liricità pura, eticità della
bellezza estetica di per sé, in quanto bellezza estetica. Correnti pittoriche,
quali l’astrattismo, si sono generate in misura notevole sotto l’ombrello della
dottrina estetica dell’arte per l’arte. La catarsi (mi si passi l’estensione
del termine) etica, associata da Cesare Piscopo alla sua pittura in funzione
edenica, esclude che egli potesse ripudiare in soluzione definitiva (come altri, si vedrà, hanno ritenuto) la maniera figurativa dal
suo stile, e convertirsi all’astratto. Anche in ciò si può intravedere una
caratterizzazione personale.
L’aspirazione edenica comporta, di per sé, non appagamenti
agevoli, ma incontentabilità di scavo, così della realtà come della tecnica
compositiva, in rapporto all’immagine di quella che si vuole trasfigurare. Il
travaglio della ricerca non è stato finora breve, e continuerà, credo, quanto
continuerà per Piscopo il dipingere, cioè tutta la vita. Egli non ha mai
sostato nella produzione ed esposizione di disegni e dipinti su carte e su
tele, con gli strumenti, gli esperimenti e le invenzioni più vari; mai non dico
eludendo, ma attenuando il dovere di scavo migliorativo all’interno della sua
iniziale concezione della pittura, e il dovere di coerenza e sincerità con se stesso. Lo scavo critico ha fatto a
meno, per più di un ventennio, di
esternazioni a mezzo stampa, teoriche: ha preferito l’operatività feconda e silenziosa
della prova e della verifica attraverso il linguaggio della matita e del
pennello.
Alla parola Cesare è tornato nei primi anni novanta, col
linguaggio della poesia. Io non so se aveva prima scritto poesie, come a molti
succede già da adolescenti. So invece che ha obbedito all’impulso di
pubblicarne non prima della metà degli anni Novanta. Quando cioè ha sentito di
aver raggiunto un certo livello o condizione di maturità nell’analisi estetica
della sua pittura e con ciò quasi un’impellente consapevolezza di carenze strutturali della espressione solamente visiva.
Rilevo che la novità si verifica negli anni dell’esplicato apeiron (sebbene la
presenza di “tracce significative di alcuni aspetti della pittura informale e
di certo surrealismo” egli abbia segnalato che già comparivano nei suoi dipinti,
fin dal ’71). E’ pur vero che i caratteri del linguaggio pittorico, segno e
colore, sono, per così dire, liricamente più statici della parola. Sicché
l’erompere del verso potrà anche ricondursi a semplice evento semantico. La
contemporaneità di Apeiron è però un fatto, e un fatto è che poesia e pittura
di Cesare Piscopo si sono reciprocamente integrate nella comunicazione
artistica di lui, oggettivamente e soggettivamente. E appare ciò una riprova
del fenomeno, già accennato e su cui tornerò, di progressiva immedesimazione
dell’artista sincero con la sua arte.
Perciò mi appare fortemente sintomatico, che tappe e caratteri
dell’approfondimento tecnico ed estetico (rimasto silenzioso sul piano delle
enunciazioni verbali) abbiano trovato sostegno espressivo nella poesia.
Sintomatico di una crescita complessiva e complessa dell’artista. I saggi
poetici di Cesare Piscopo sono due.
Uno è datato 1996, l’altro 1998 (Panico editore, Galatina). Ma
sono le date editoriali, non quelle della composizione dei singoli testi. I
contenuti dei quali spesso riflettono gli stati d’animo dell’autore. Questi
appaiono meno frequenti ed intensi nella prima raccolta: Fili d’erba; assai più
frequenti ed intensi nella seconda: Dal profondo Sud. Ovviamente interessano
molto la presente indagine, che riguarda lui e la sua pittura. (Non il valore
letterario dei versi, che tuttavia non difettano affatto di illuminazioni
stilistiche, inventiva analogica, vigore semantico).
Vi traspaiono dubbi e sconforti al punto da investire idee
filosofiche quali esistenza, realtà, verità, essere; ma anche coscienza della
validità dello scavo critico condotto e dei suoi esiti, insieme a speranze,
ambizioni, tenacia a superare i pur ritornanti pessimismi e amarezze. A
documento di tutto questo estraggo dai due volumetti una sommaria antologia dei
momenti più significativi e toccanti, senza stare a ordinarli tematicamente.
Da Fili d’erba: “In assenza / di / parole / mi / guardo /
intorno // Solo dolore”; “Dubito / che / io / esista”; “Abbozzato / Appena nato
/ Limitato / Cambiato / Invecchiato // ESSERE”; “Come / antenne / infinite /
dell’albero / i / rami / verso / il / cielo”; “Occhi / dell’alba /rosata //
Fili / d’erba / fra / le / rocce // Ragni / imbevuti / di / luce”; “A / sera /
un / grillo /canta / il / suo / inno / alla / vita”.
Da Dal profondo Sud: “Fiori che gridano / il loro dolore”; “Pare
la strada seguire le orme / di mille e più creature / intanto lontano / in un
punto sfocato / germoglia la vita i suoi caduchi fiori”; “Vico delle Giravolte
/ rifugio della speranza / se fra i tragici muri / ancora / lampeggia /sui
pallidi volti / precaria la vita”; “Realtà / è quell’onda che osservo / mobilissima
verità sommersa”; “Chiarore indistinto // Infinita notte // Si piegano alberi
urlanti // in oscuro tunnel // Solitario percorro una strada in salita”. Tre
fra le ultime poesie: Una barchetta, Don Chisciotte, Non si apprezza ciò che
non si conosce arrivano a tale forma di immedesimazione della persona del
pittore con la sua vicenda artistica, da diventare trasparenti metafore di lui,
o meglio di una sua condizione di spirito fra disperatamente pessimistica e
rassegnatamente rinunziataria. Varrebbe la pena, se vi fosse spazio, di
riportare intera la metaforica Don Chisciotte. Questo componimento,
apparentemente scherzoso, anzi giocoso, esprime invece apici di disperazione
miracolosamente autoironica, e contemporaneamente orgoglio di sé, artista pittore,
fin dalla scelta del personaggio allusivo: quel Don Chisciotte tragico insieme
e sublime entro il suo sogno ostinato di un suo Eden cavalleresco. Non meno
significante di Dal profondo Sud ritengo la anteriore esperienza di Apeiron
(1995), mostre e fascicoleto. Credo che proprio nei quattro anni intercorsi tra
i due scritti sia maturata la immedesimazione, cui prima ho accennato, del
pittore con la ricerca pittorica, quasi ricerchi anche se stesso nel rapporto
con l’arte e con gli ambienti dell’arte, o meglio immedesimi a se stesso l’arte
e gli ambienti dell’arte. E nel medesimo tempo si liberi del condizionamento
esercitato da questi ultimi, facendosene superiore.
Credo di non andare molto lontano dal vero, se ipotizzo che gli
stati di sconforto metaforizzatisi nella Barchetta, nel Don Chisciotte, nel Non
si apprezza si siano in grande misura alimentati in conseguenza
dell’apprezzamento dell’Apeiron nel giudizio entusiastico degli esperti. Cesare
ha denominato apeiron (indefinito, indeterminato) una fase, o meglio una guisa,
operativamente sperimentata, di quell’aspetto della sua ricerca critica che
verte sulla genesi della “forma” nell’arte.
C’è in tale intitolazione un elegante, cultamente appropriato,
forse anche compiaciuto, riferimento analogico al nome dato all’archè
(principio ed essenza informe di ogni realtà formata, che all’informe
ritornerà) dal filosofo presocratico Anassimandro, vissuto fra il settimo e il
sesto secolo a. C.
Le opere funzionali a tale sperimentazione (e che non per questo
cessavano di essere dipinti da esporre) furono in mostra a Lecce, Tricase,
Otranto nel detto anno 1995, naturalmente senza affiancamenti ad altre che fossero
vicine all’oggettivismo figurativo. La letteratura critica le ha salutate assai
favorevolmente, ma interpretando le mostre come prova di una pura e semplice
evoluzione dell’autore dallo stile figurativo all’informale e magari
all’astratto: una sorta di conversione definitiva alla casualità del segno e
della macchia. In sostanza un allinearsi (tardivo) ad una sorta di
modernizzazione stilistica.
Con il consueto garbo e con correttezza di costume, Cesare ha
riunito in un fascicoletto a stampa le interpretazioni dei critici. Lo ha
tuttavia intitolato Apeiron e chiuso con una sua brevissima autoesegesi. Nella quale (come
anche in citazioni di frasi non sue, che ha inserito fra riproduzioni di
immagini) non professa alcuna adesione all’informale o all’astratto, pur mentre riconosce gli
incrementi tecnici che ne ha ricavati: “Il mio lavoro”, scrive, “nasce quasi come
liberazione da ciò che per me è costrizione, artificio, schema precostituito.
Esso rappresenta un tentativo di realizzare un’immagine come evento naturale in
cui le “forme” crescono e si trasformano senza sforzo. Continua poi
riaffermando una concezione teleologica di pittura paesistica che non si
discosta da quella che ha enunciato nel 1971.
Ma quasi trent’anni di lavoro e di indagini tecniche sono venuti
progressivamente affinando: “Operando”, scrive, “una istintiva gestualità, in
cui armonizzano l’elemento naturale del caso e l’elemento umano del controllo,
vedo generarsi […] una trama arteriosa e metamorfica di segni colorati: materia
iridescente, attributo di u mondo incontaminato in continua evoluzione che
originandosi, espandendosi e ramificandosi registra un ritmo, un respiro, un
soffio vitale”.
Un passaggio, insomma, dall’informe anassimandreo alle forme,
attraverso le spinte, consonanti, dell’istintualità (casualità, spontaneità) e
dell’intelletto (riflessione, controllo razionale). E tali spinte si motivano
in funzione, artistica e gnomica a un tempo, dell’ideale, quanto si voglia
utopistico, di un ritorno edenico: la fase dell’apeiron non vuole essere che
una tappa della “lunga marcia” di Cesare nello scandaglio. Tappa costruttiva,
certo, e certo non ultimativa. Cesare ne è, e ne è sempre stato, tenacemente
convinto, anche se pause, dubbi, scoraggiamenti non gli siano mancati, né
amarezza per le incomprensioni. Si è però sempre risollevato, nella fiducia di
sé e del valore della sua arte. I due brani che seguono ai tre indicati, dello
sconforto, e che chiudono la raccolta poetica Dal profondo Sud, attestano
Cesare ben fuori dalla disperazione del Don Chisciotte. Non fuori da ogni
eventuale apertura a nuove ricerche, anzi fiducioso nella loro positività
maieutica. Sempre però rimanendo fermo il fine estetico-etico della ispirazione
che ne caratterizza personalità e stile. Un “attributo” della pittura
paesistica che la renda purificante dalla “contaminazione” attuale della natura
non avrebbe alcun senso, se dal paesaggio dipinto restasse esclusa la figura
umana. Né avrebbe senso affidare
all’arte valenze gnomiche, come è carattere di quella di Piscopo, e lo è stato
di quella di molti altri, con proprie differenziazioni ciascuno, fin da Platone
ed Aristotele. Che la figura umana non possa essere estromessa dalla figuralità
naturale, che anzi appunto la incombente presenza di essa contribuisca al
vigore della suggestività purificante, Piscopo lo ha pensato da sempre.
Numerosissimi sono i suoi dipinti con figure umane nel paesaggio, e abbondanti
quelli con preminenza delle figure.
Nel fascicolo di presentazione dell’Omaggio a Kokoschka
(Castrano, aprile 1998), lo ha esplicitamente affermato: “Nella mia recente
produzione pittorica si denota un ravvivato interesse per la figura umana e per
il paesaggio”. Ha anche riprodotto nella prima e quarta faccia di copertina ben
otto fra gli studi a penna preparativi del mirabile ritratto Dedicato a
Kokoschka. Ha di seguito precisato che “volti e corpi, dai tratti grotteschi e
caricaturali, rappresentano un’umanità primordiale desolata, vanamente alla
ricerca di equilibrio, di armonia, di perfezione”; e che ”i paesaggi evocano,
in un’atmosfera spesso cupa e drammatica, un senso di vuoto e di inquietudine
esistenziale”. Sono figurazioni che si direbbero più vicine allo stato d’animo
da cui è sgorgata l’analogia del Don Chisciotte, che alla generosità dello
impegno edenico. Quasi che nessun lievito, neppure nascosto, di speranza
edenica fosse operante. In altra pagina però del medesimo fascicolo Piscopo
spiega all’intervistatore che “gli spazi aurorali” di vari paesaggi “esprimono
la speranza di una convivenza più equilibrata ed armoniosa fra l’uomo e la
natura”, ribadisce, cioè, l’intenzione gnomico-catartica della sua produzione
paesistica. C’è incompatibilità fra le due posizioni? Oppure l’artista si
propone di ottenere esiti catartici tanto popolando il paesaggio di
trasfigurazioni – della natura e degli uomini – mostruose e repellenti, a
condanna del disastro ecologico in corso, quanto esibendo trasfigurazioni
paesistiche splendenti di bellezza, a nostalgia pungente del paradiso perduto?
Anche la satira, la caricatura, il grottesco, perfino il brutto può l’artista
esser capace di sublimarli in connotazione positiva di un messaggio. D’altronde
nessuna contraddizione comporta l’idea di ambivalenza così del mostruoso come
dell’idillico in funzione di un’unica finalità, bella o brutta, buona o cattiva
che sia. Nella pittura come in qualsiasi altra forma di umana attività. Anzi, e
ciò forse vale solamente per le arti, l’ambivalenza dei mezzi è ricchezza che
si apre alla scelta dell’estro e della professionalità dell’artista.
Non poco, io penso, della forza vera di Cesare Piscopo pittore,
e del pregio vero della sua produzione artistica sta nell’abbinamento di
coerenza ideale e flessibilità sperimentale. Ciò lo rende difficile da
inquadrare, quasi che abbia oltrepassato il presente, che ne abbia intuito, ne
viva, la caducità culturale e voglia che il dipinto la fissi, ma anche voglia
trovare una forma, nel medesimo dipinto, di comunicazione che oltrepassi la
caducità. E’ esigenza, appunto, “difficile”, ossimorica, strutturale all’utopia
edenica. La ispirazione poietica di Cesare Piscopo è robustamente sostanziata
di storia dell’arte pittorica. Cultura storica (dovrebbe essere superfluo
ricordarlo) è altra cosa da ripetizione passiva. Non toglie originalità alle
opere, ma le alimenta e irrobustisce proprio perché le storicizza, le colloca
durevolmente nel presente. Può avvenire nell’oggi che si giudichi “già vista”,
e dunque non originale, effimera, l’opera dell’artista nutrito di storia, ma
solo perché la si è guardata poco e male, con superficialità o, peggio, con
narcisistica infatuazione.
Primeggia in Piscopo lo studio della espressione in autori
contemporanei, quali Munch, Nolde, Ensor, Rouault, Kirchner, Kokoschka, Klee,
Giacometti, Dubuffet, Mirò, Jorn, de Kooning (ma anche i grandi paesisti
dell’impressionismo, non ultimo Van Gogh). Questo momento, infatti, della storia
pittorica (nel quale variamente vengono affrontati temi inerenti alla perdita
di identità dell’uomo di massa, alla precarietà dell’esistenza, alla violazione
della natura) intimamente consuona con la vocazione artistica di Cesare e con i
tormenti etico-sociali che la stimolano. Né, ovviamente, il bagaglio storico di
Cesare rimane sordo all’idealità di bellezza armoniosa dei Grandi
rinascimentali, né a quello di ingenuo stilizzato candore dei loro ugualmente
grandi predecessori, tanto più che questi respirano un “realismo apparente”, in
tanti aspetti non lontanissimo dall’odierno “primitivismo”. E il “realismo
apparente” (come pure il “non realismo” apparente), abbiamo già accennato, è
anche una dimensione non secondaria del linguaggio pittorico di Cesare.
Nella mostra che conta di organizzarsi nel prossimo febbraio,
pare che Cesare abbia deciso di affidare alla sola trasfigurazione
paesaggistica della natura quella efficacia catartica, che è insieme piacere
estetico ed educazione ad un futuro salvifico. E non è detto che nei dipinti
che esporrà egli non abbia conseguito livelli di suggestione espressiva che
superino, e non di poco, la “descrizione esteriore” degli oggetti. Né è detto
che con ciò non abbia nulla ottenuto della finalità, pur utopistica, che costantemente
si è andato si va proponendo, ed in ordine alla quale, esclusa ogni leziosità
ornamentale o descrittiva che rompa la stretta essenzialità compositiva, si
avvale di ogni materia e di ogni libertà capaci di alimentare convivenza
“pacifica” dell’uomo con l’ambiente naturale. Il “pacifica” è termine suo del
pittore Cesare Piscopo. Ma proprio di “pace” edenica, che la comparsa dell’uomo
nell’Eden ha rotto, cantò anche il poeta magliese morto giovane undici anni fa,
dileggiato dai benpensanti, Salvatore Toma. Ora lo si sta comprendendo e
rivalutando.
Ripeto, la “salita” di Cesare è sempre in itinere: “Solitario /
percorro / una strada in salita” (Dal profondo Sud, p.19). E ad un
intervistatore recente, che gli ha chiesto: “Come considera la sua arte?”, ha
risposto: “Come un albero le cui radici rappresentano la realtà, il fusto e i
rami la mia sensibilità, le foglie il prodotto artistico finale” (Omaggio a
Kokoschka). E chi non sa che le foglie, anche quelle cosiddette perenni, cadono
e si rinnovano? E non sente il poeta Piscopo “come / antenne / infinite / dell’albero / i rami / verso / il cielo”?
(Fili d’erba, p.19).
Tratto da: Nicola G. De Donno, Nota breve sulla ricerca
pittorica e la utopia edenica di Cesare Piscopo; Editrice Salentina,
Galatina - 1999.
giovedì 26 gennaio 2012
Mario De Marco. Cesare Piscopo poeta
Animo sensibile e
vibratile, Cesare Piscopo è conosciuto soprattutto come pittore, e solo dal
1996, con Fili d’erba, il pubblico lo apprezza anche nella sua qualità di
poeta. Ritengo necessario premettere che per meglio cogliere i motivi
ispiratori delle liriche del Nostro sia necessario e indispensabile operare una
lettura parallela delle sue “carte inchiostrate” e dei suoi versi, essenziali
sia per quanto attiene il linguaggio e sia, ancora, per quanto riguarda i
contenuti di indubbia matrice esistenziale.
Sotto il profilo stilistico appare inevitabile
l’accostamento di questa raccolta di versi con l’ispirazione dei proto
romantici anglo-tedeschi, non solo per gli accenti pessimistici, ma anche per
l’anelito verso l’infinito e il sublime, per lo scandaglio del proprio animo
nonché per il panico coinvolgimento degli elementi naturali.
Nelle poesie di Cesare si trovano
l’equilibrio e la misura dei termini, ma ciò non è prodotto né da un’operazione
fatta a tavolino né, tantomeno, dalla ricercatezza tesa a suscitare
qualsivoglia effetto sul lettore. Il canto scorre spontaneo, sicuro ed
immediato, sorge dalla consapevole visione del mondo e della vita che non si
irretisce nello sterile solipsismo ma, al contrario, si dona come personale
testimonianza di un vissuto che attraversa il dolore.
L’amore, gli affetti, la natura vivente e
palpitante, sprazzi di vita e di paesaggio salentino offrono i contenuti della
riflessione del nostro autore che, tra sogno e ricordo, tra impressioni e
meditazioni, con simboli, metafore e allusioni si rivendica, infine, lo spazio
ristretto per trarre a volte le proprie conclusioni le quali, spesso, hanno il
sapore aforistico.
Cesare è un uomo che sa guardarsi dentro e
attorno, riesce ad interrogare e ad interrogarsi, tuttavia il suo porgere è
semplice, è privo di spocchia e si palesa con umiltà e semplicità, forse con la
speranza di ottenere risposte, forse perché crede nella possibilità della
trasmutazione di ognuno e di tutti. Un pessimismo, quindi, che lascia via
d’uscita, un interrogarsi sull’esistenza che non trascura la possibilità di
meravigliarsi, di commuoversi, di dire sommessamente ciò che si agita dentro.
Ritengo che il nostro autore si faccia
interprete di quanto non siamo in grado di cogliere e di dire, credo che
proprio per questa ragione Cesare promuova una interessante coralità, l’ascolto
del lettore, poiché non poco ha da dire e da dare.
Mario De Marco
(prefazione al libro di poesie di Cesare Piscopo: Dal profondo Sud, 1998)
Marina Pizzarelli. Ideare facendo
L’ultimo contatto di Cesare Piscopo con il
mondo “visibile” delle forme, con la riconoscibilità dell’immagine, risale a
più di un anno fa, a certi suoi disegni a matita che rivelavano, nella
ragnatela intricata delle linee, nello sfumato ottenuto attraverso
cancellature, una figura umana. Ma già questa era ridotta a larva, a
ectoplasma, ad una sorta di insetto-uomo che appariva e scompariva nel bozzolo
di linee e macchie, richiamando alla mente certe drammatiche figure di Dubuffet
o di Giacometti, immagini scarnificate di estenuata spiritualità. E anche
laddove il rigore del bianco e nero veniva vivificato dall’apporto cromatico,
nelle tempere a colori dissonanti, espressionisti, i contorni neri, decisi,
alla Kirchner, riuscivano a malapena a trattenere ancora un’allusione alla
figura, prima della sua scomparsa totale, in immagini che rievocano quelle di
Egon Schiele o di Willem De Kooning.
Oggi
questo processo di progressiva rarefazione ed astrazione, da tempo avviato,
sembra essersi definito in una pittura che non rappresenta o descrive, ma
evoca, e di quei precedenti mantiene intatta la scelta della psiche. E’ come se
quelle ricerche avessero portato l’artista a varcare del tutto la soglia della
razionalità, per abbandonarsi e fluttuare in quell’universo anti-gravitazionale
nascosto – solo a saperlo vedere – in ciascuno di noi: così sulla tabula
rasa del foglio bianco aggallano forme pseudo-Kandinskiane, organiche e
fantasiosamente astratte, immagini campite da colori trasparenti e
contrappuntate da neri, in bilico tra una serie di rimandi semantici attinti
dalla reatà esterna e da quella interiore, luminose ed incorporee come flussi
di energia telematica.
Ideare
facendo, sembra essere il principio che oggi presiede alla pittura di
Cesare Piscopo. L’attenzione è rivolta al gesto, al segno, come immediati
referenti dell’anima e di una conoscenza che è intuitiva e profonda insieme,
capace di andare “oltre” il sensibile, fatta di percezioni sospese e confuse,
ma assolutamente determinanti. Così queste opere sono tabulae scriptae,
un agglomerarsi di tracce, una scrittura dell’anima.
All'origine di questo processo di astrazione sono le filosofie sottese
alle estetiche orientali, cui l'artista è interessato, quella dottrina Zen che
sul piano gnoseologico ammette un tipo di conoscenza assoluta e irrazionale,
diversa da quella intellettuale, una conoscenza soggettiva e non trasmissibile
se non attraverso il potere espressivo dell'immagine e le sue accezioni
simboliche.
Così
il linguaggio pittorico di Piscopo si svolge all'interno di un ritmo informale
a dominante gestuale cromatica e segnica, dove confluiscono una profonda carica
emozionale e la volontà di canalizzare in forma simbolica questa forza. Il
nucleo dell'azione pittorica sta nell'urgenza di esprimere un'emotività
gestuale che però riesce ad organizzarsi e permette alle immagini inconscie di
affiorare alla coscienza.
Si
potrebbe parlare di un processo psico-grafico meccanico che Piscopo
attiva sul supporto, secondo una modalità di operare che consente pochi
ripensamenti, si affida alla casualità, e lascia ampio margine
all'immediatezza, alla spontaneità della visione.
Così
sul piano dell'opera si modulano urti e accordi allo stato puro, talora sospesi
nel loro principio di gestazione e lasciati quasi in abbozzo per esprimere
l'insorgere di un pensiero che si manifesta in lampeggiamenti.
Colori ombrosi affondano e colori luminosi affiorano in una sintassi
scorrevole, in una mobilità di impianto espressivo che si muove per variazioni
di andamento e trasparenze.
C'è
una naturalezza della grafia che l'artista tende a controllare elaborando dei
nuclei di resistenza che rallentano e raffreddano la corsa. Agli azzurri, ai
rossi, ai gialli è affidato il compito di generare le condensazioni più
intense; i neri (linee, gocciolamenti) corrono sugli sfondi o s'insinuano come
punte di diamante nelle maglie di quei microcosmi luminosi, mentre improvvisi
"buchi neri" creano profondità che attirano l'occhio in una sorta di
ipnosi percettiva, rivelando la possibilità di un "oltre" oscuro ed
inquietante.
Dalle suggestioni dell'arte orientale deriva il gusto per l'asimmetria,
l'elegante calligrafismo ai limiti dell'ideogramma, il valore del segno e il
fascino dell'assenza, del vuoto, contrapposti all' horror vacui dell'arte
occidentale.
Il
rapporto con la carta, materiale vivo, si respira continuamente attraverso
questi segni che spesso consentono interstizi e molto spazio intorno, che
lasciano respirare il lavoro: il supporto diviene così parte integrante di una
ricerca che, se è veloce nel tratto, non lo è affatto nel processo creativo,
frutto di meditazione.
Così
queste carte si presentano essenziali, pervase da una leggereza che talvolta fa
pensare al sogno, al silenzio, talaltra propone una resa visiva di armonie,
cadenze e contrappunti di tipo musicale.
Ma è
soprattutto il senso di una sottile ambiguità di lettura a scaturire nelle
opere di Piscopo, sorta di criptogrammi in cui si può scorgere tutto e nulla,
animali, nuvole, cieli, galassie remote o pure forme astratte che danno
l'impressione di un assoluto sganciamento.
Ed è appunto questa la metamorfosi sciamanica della sua pittura: movimento di traslazione della materia in costellazioni senza peso.
Marina Pizzarelli (dal catalogo delle mostre personali di Cesare Piscopo a Tricase - Biblioteca Comunale e a Otranto - Museo Diocesano; 1995).
venerdì 20 gennaio 2012
Aldo Vallone. Due lettere a Cesare Piscopo
Nella
produzione di Cesare Piscopo, nato a Parabita ma galatinese per ascendenze,
raccolta dal 1973 ad oggi, cioè dal diploma dell’Accademia all’esercizio
professionale, contano innanzitutto la varietà e la molteplicità delle
esperienze. A fronte degli otto ultimi “pezzi”, in genere tempere acquarelli ed
oli, si pongono centinaia di abbozzi disegni schizzi impressioni, che restano
tutti e resteranno, forse, nelle gonfie cartelle da studente: un cammino breve
ma intenso, fortemente cadenzato in ritmi e movenze, sottolineato da soste e
ripensamenti. Perché quello che piace e giova e impressiona, in un giovane come
Piscopo, è l’insistenza su temi e motivi, che si dispongono, spesso solo
lievemente variando tra loro, senza fretta e senza concessioni alla bravura.
L’immaginazione non è mai lasciata a se stessa, allo stato di spontaneità pura;
ma è sorretta da lungo studio, rivolto a togliere o ad aggiungere qua e là un
dettaglio prima di tendere alla
conclusione. E quando questa si raggiunge, un altro orizzonte si apre prospero
e genuino. Può capitare che il dettaglio, espunto da una tempera perché visto
come estraneo e ornamentale, non cada del tutto e riempia poi di sé una tela o
un acquarello per realizzare un’altra idea in altro spazio. E l’una e l’altra
si pongono decisamente dinanzi alla natura, all’uomo e alle cose. Non si
descrive, né si canta, né si allegorizza. Piscopo ha imparato anche lui, come
ogni giovane di avido ingegno, le tecniche più vaghe e perentorie d’oggi, i
loro segreti e i loro artifici; nei disegni v’è lunga traccia, vivida e aperta
come testimonianza; ma ha poi imparato, osservando per conto suo, a vivere le
cose, dentro, al di là dei legami della scuola, a trovare anzi i veri segni
nello stesso solco dei grandi maestri. L’astratto, il geometrico, il collage,
in cui pure egli indulge con prove di buona mano nei primi anni, si dissolvono
via via e assumono modi interi e propri: forma è allora sostanza. Le cose
stanno lì e si piantano vigorosamente nel reale, partecipi del reale, pronte a
fare storia con noi, a legare nella memoria tempo e spazio simultaneamente. Il
tema è il mare, vario e costante insieme, sia che domini incontrastato, come in
Lungo la costa Lo scoglio rosso La nave Plenilunio sul mare; sia
che affiori ai margini di case e borghi ammucchiati, come in Novaglie;
sia che si indovini, taciturno e immoto, oltre le arse pianure, come in Strade
del Salento: una realtà piena e sognata, verghianamente sofferta più che
goduta, umbratile più che meridiana, tesa in colori cupi, ma anche soffice di
smorzate dorature come soavi folate di bambagia. La ricerca del colore (e
dentro si coglie l’alta scuola del disegno) se da un lato esprime un’ansia
superata ma non repressa o una fatica
redenta, da un altro quasi sempre ispira mite amore e serenante fiducia al di
là della gioia solare e della cupa malinconia. E’ una forma-sentimento, un
colore-stato d’animo, umilmente ma costantemente cercati, che ci riportano,
almeno per tentazioni suggestive, alla lezione di Toma galatinese. (1978)
Rapido
e intenso è il percorso artistico compiuto da Cesare Piscopo: più distanziate
(e proprio a partire dai tentativi ardenti di fresca adolescenza) le prime
prove (1963); più fitte, invece, e costanti, le ultime con le mostre a Lecce,
Tricase e Otranto (febbraio e luglio ’95).
Ed
ora, in questo primo autunno, appare una nuovissima serie di “composizioni”
(inchiostri su carta), in cui il tratteggio, forte e delicato insieme, del
passato è quasi tutto dissolto. Non v’è disegno; non vi sono soste o sospensioni
di preordinata meditazione: v’è un istinto mobilissimo, che tenta di evadere da
ogni limite, quasi un suggestivo abbandono alla casualità o al capriccio o
anche al diletto che può dare il colore. Ed è questo che a me interessa
maggiormente: ad esempio, quel rosso, spruzzato sul bianco-roseo della carta,
acquista una vitalità inconsueta e toni d’immediato risalto.
Scompaiono
le linee portanti, il ”figurato” dello stile precedente; ma dentro, pur
nell’astratto più ardito e immaginoso, si può scovare l’ombra o il sentimento
di una terrestre salentinità.
E’
questo, allora, un passaggio obbligato per future prove? Forse: ma così come
sono (o come io leggo) queste composizioni, innovando, profondamente
persuadono. (1995)
giovedì 12 gennaio 2012
Francesco Fersini. Il paesaggio marino di Cesare Piscopo
Cesare Piscopo, parabitano,
è una figura di un certo spessore artistico, poiché oltre a essere pittore, già
apprezzato a suo tempo dal grande artista austriaco Oskar Kokoschka, è anche
scultore, poeta e già docente di Educazione artistica. Ha pubblicato Fili d’erba (1996), Dal profondo Sud (1998), Il
mare dell’amore (2006), Messaggi dal
mare (2007), e recentemente l’antologia
Sotto le silenziose nuvole un mare di pensieri. Dal 1963 espone con
successo in varie mostre e le sue opere sono esposte in collezioni pubbliche e
private, in Italia e all’estero.
Dopo un’attenta ricerca
sull’astratto, Cesare Piscopo è passato alla figura umana analizzata nelle sue
forme espressive, per poi approdare allo studio del paesaggio. La sua
attenzione ora si concentra sul mare. Non a caso, vari titoli di sue opere sono
un costante richiamo a questo elemento paesaggistico. Penso al Canto notturno del mare; Il mare di Vincent;
Mare in tempesta; Movimento di vita; Altomare; Mare d’inverno; Natura la tua
bellezza ci commuove; Oltremare; Il cielo e il mare di Leuca. Perché
proprio il mare? Piscopo lo spiega molto bene. Il mare è sinonimo di forza e di
energia che penetra ogni forma di vita; è specchio e luogo dell’anima. Il suo è
un paesaggio-stato d’animo come allude in una sua poesia…Tutto tace mentre
ascolto il mare e i chiassosi tumulti del mio cuore…In un’altra della
raccolta Messaggi dal mare esalta i
colori che sono come il mare, ti accarezzano, ti sconvolgono si sciolgono in
luce, un mare di luce.
Osservando queste sue
opere, l’osservatore sembra quasi essere travolto dal turbinio dei flutti e la stessa pennellata, a
tratti materica e virulenta riesce a trasmettere una intensa carica emotiva. La
forza del colore è tale che esso stesso sembra trasformarsi in acqua, diventa
insomma una sorta di metaplasma, come è stato definito da Cesare
Padovani.
Il paesaggio marino di
Cesare Piscopo, realizzato come fosse un ritaglio, non è certamente reale, ma
interiorizzato, reinventato e rivissuto liricamente. E’un paesaggio quasi visionario
e trasfigurato, filtrato attraverso la propria sensibilità, che determina a
tratti un linguaggio cromatico tutto particolare. Penso per esempio a quella
linea di orizzonte che a volte viene ombreggiata o marcata di nero, quasi a significare che oltre c’è il vuoto e il
nulla. In effetti Piscopo considera la realtà in continuo divenire dove l’essenza
del tutto è il vuoto. Con questo mare l’artista entra in simbiosi e opera
una fusione, una sorta diremmo quasi di panismo dannunziano; sono significativi
i versi di una sua poesia… Seguirò l’istinto. Ti porterò al mare di
notte…saremo acqua e roccia e nuvole sovrapposte…
Il mare di Piscopo potremmo
infine definirlo una sorta di Eden o meglio di felicità naturale dove, per
usare un termine montaliano, gli ossi di seppia possono galleggiare felicemente
prima di essere sbattuti sulla spiaggia e per citare i versi del Leopardi potremmo
veramente dire “…il naufragar m’è dolce in questo mare…”. Qui sta la novità di Cesare
Piscopo: la sua sensibilità é romantica, ma viene rivissuta in una prospettiva
artistica tutta moderna e originale.
Francesco Fersini (introduzione
alla mostra di Cesare Piscopo a Leuca.; Auditorium Chiesa Cristo Re - Luglio
2009).
Alessandro Laporta. La luce nella pittura di Cesare Piscopo
Ricordo
che un’amica straniera in visita per la prima volta ad Otranto mi diceva:
“Siete fortunati voi Salentini ad avere una luce così. Noi non siamo abituati.
E’ una cosa speciale”. E continuava: “Altrove nell’Italia di lassù, le messi
non rifulgono in questo modo sugli avvallamenti e poi sui piani sterminati”
citando Antonicelli che chissà come si era procurato e aveva letto in edizione
originale, prima di affrontare l’ultima parte del suo viaggio.
Ecco, è
proprio sulla luce che si concentra questa mia riflessione intorno a Cesare
Piscopo, alla sua capacità di suscitare emozioni stendendo in un certo modo il
colore sulla tela, insistendo su un paesaggio che forse non ritrovi subito
guardandoti intorno, ma certamente se cerchi in te stesso. Di lui conoscevo
alcune già folgoranti esperienze giovanili che preannunziavano gli studi di
questi anni; e conservo un delicato acquerello siglato Napoli 1968, che a
vederlo ogni volta mi regala luce e poesia.
Oggi lo
trovo, questo modo di esprimersi misurato e romantico, nel mare di diversi
colori, che potrebbe non sembrare credibile, ma è tutto di qui, della costiera
fra Castro e S. Maria di Leuca.
Piscopo
lavora e si strugge sulla luce. Il mare può essere nero e variare nei toni del
verde e dell’azzurro: poi spunta il bianco e si nasconde; compare l’arancio, si
avvita in tre o quattro pennellate e si perde nel giallo che strappa
l’applauso: come in una danza vorticosa e imprevedibile, variopinta, che induce
l’occhio a percorrere in tutti i sensi la tela senza fermarsi.
Il sole
abbandona presto gli scogli del Ciolo e se ne va sullo Jonio a ravvivarne i
riflessi, ma le ombre non sono mai prevalenti, nemmeno nel cuore della pietra,
dove dormono le Veneri steatopigie e le Madonne bizantine. Anzi sono amiche,
come scrive Gatto a Lucugnano: "E il paesaggio si esalta al mattino,
saziandosi di luce".
Cesare
Piscopo cattura questa luce e si interroga. Si interroga sul paesaggio stesso
che connota una terra orgogliosa e millenaria, alla ricerca di una formula che
ne interpreti il messaggio cifrato. Accetta la sfida della poesia, anche lui
poeta di versi oltre che di colori, ed ingaggia una lotta impari con gli
elementi della natura incapaci di stare fermi, ma che vuole a tutti i costi
fissare nei suoi quadri. Poi torna nuovamente alla luce e si riposa.
Di questi
riposi, di queste oasi tranquille, è fatta la sua arte che crea in lieta
armonia, in perfetta sintesi sentimentale con la sua idea del Salento. Se legge
il mare, o ascolta il cielo, se trasforma in sogno la terra o si arrampica
sulla scala dei colori, non posso che condividerne le scelte istintivamente.
Come d’istinto ho amato le sue cose, acquerelli, olii, sculture, poesie, e sono
qui a renderne pubblica testimonianza.
Alessandro Laporta (Introduzione alla mostra di Cesare Piscopo “Il paesaggio, la luce della poesia; Palazzo Comi, Lucugnano – 2005).
venerdì 6 gennaio 2012
Capire l'arte
L'arte risponde a un bisogno fondamentale dell'uomo. Suo primo scopo è una più completa interpretazione della vita, in tutta la sua pienezza. Le capita, è vero, di servire altri fini: religiosi, politici, sociali, simbolici; ma questi fini, siano o non siano lodevoli, sono estranei alla sua funzione primaria, e possono anche costituire un ostacolo al suo svolgersi. L'arte non contribuisce al soddisfacimento delle più immediate necessità vitali. L'umanità non può vivere senza cibo, senza un tetto e senza vestiti; può invece sopravvivere senza arte. Il desiderio di esprimersi per mezzo dell'arte è tuttavia così profondamente sentito che, fin dalla preistoria, si è manifestato senza interruzione su tutta la faccia della Terra; e ciò che sappiamo sull'uomo primitivo - a prescindere da quello che ci hanno insegnato le sue necropoli - lo dobbiamo all'artigianato. Questa prima forma d'arte dimostra la tendenza dell'uomo a conferire agli oggetti qualcosa di più di un semplice carattere utilitario, qualcosa che possa allietare anche la vista, la mente e il cuore.
Poche altre attività umane sono suscettibili di tante interpretazioni diverse; il significato dell'arte varia da persona a persona. La varietà e la complessità delle vie d'accesso alla comprensione dell'arte devono indurci alla tolleranza. Le teorie estetiche hanno analogie con il costume: ognuna di esse vale per la sua epoca e per il suo paese. Fino a quando l'umanità sarà composta d'individui, ognuno sceglierà la via che gli conviene. Alcune sono aperte a tutti, qualunque sia la loro formazione culturale; altre esigono un'esperienza o conoscenze particolari, o tutt'e due. Chi dispone di un maggior numero di mezzi d'approccio ha, ovviamente, maggiori possibilità di godere tutte le gioie procurate dall'arte.
L'opera d'arte è come un triangolo, i cui lati siano il soggetto, l'espressione, la forma. Questi tre elementi sono interdipendenti, ma non hanno necessariamente lo stesso peso. Un artista può dare importanza a un elemento piuttosto che a un altro. Siccome nessuno di questi elementi ha in sè maggior valore degli altri, non è detto che accentuare l'aspetto formale sia meglio o peggio che attribuire importanza capitale all'elemento espressivo o al soggetto. I lati del nostro triangolo non debbono esser confusi con i mezzi tecnici dell'arte - linea, massa, volumi, spazio, colori, materiale usato - che permettono all'artista di dar concretezza al soggetto, all'espressione, alla forma. Esaminiamo ora separatamente ogni lato del "triangolo", a cominciare dal soggetto o contenuto. Quasi tutti i dipinti hanno un soggetto; essi "rappresentano" qualche cosa, anche se, da quando è nato l'astrattismo, soggetto, espressione e forma non sono necessariamente individuabili. Il soggetto, dunque, può essere elementare o trascurabile.
Per espressione intendiamo l'interpretazione del soggetto o del tema. In teoria, l'artista può servirsi del colore o di altro materiale per tentare di dare un'immagine obiettiva di ciò che vede, per "fotografare" in qualche modo una scena o un oggetto a due o tre dimensioni. In pratica, però, questa obiettività è molto rara. Due artisti reagiscono raramente allo stesso modo, a uno stesso soggetto.
La forma è il terzo lato del nostro triangolo, ed è l'organizzazione di un'opera a prescindere dalle esigenze del soggetto e dell'espressione; è il modo di realizzare un'immagine. L'unità estetica di un'opera d'arte si ottiene con la composizione, cioè con il coordinamento visivo dei diversi elementi.
Alla composizione concorrono tre fondamentali fattori: l'armonia, il ritmo, l'equilibrio.
Per concludere questa breve e sintetica esposizione, possiamo dire che l'arte nasce dallo spirito di un'epoca e la storia dell'arte deve la sua infinita varietà all'azione congiunta dell'epoca, del luogo e della personalità.
Tratto da: E. M. Upjohn, P. S. Wingert, J. G. Mahler; Storia mondiale dell'arte - Dall'Oglio Editore.
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