Scrive Cesare
Piscopo in un suo breve componimento poetico del 1996: Se chiedo cosa nasconde il mare
/ tu mi dirai / forse nulla / tutto / chissà / la verità. E se in questa
inquieta visione il pensiero non si scompone non è per una raggiunta
pacificazione ma per percepire attraverso il mare, i chiassosi tumulti del cuore. Dunque, attraverso tale
identificazione, ossia la mitizzazione dell'acqua, l'autore - in generale
l'uomo - attinge alla profondità del proprio essere dove solo il presente saetta / sul mare fluttuante
della vita. Ai rutilanti colori, alle ardite intersezioni e sovrapposizioni
luministiche, alla particolare tecnica pittorica che salda nello stesso moto
l'acqua del mare con il cielo, é affidato il compito di esprimere questo
particolarissimo stato d'animo che quasi da una posizione di stallo, osserva, e
più che osservare pensa, il tragico che permea il nostro intorno. Che è un
intorno, come ce lo descrive pittoricamente Cesare, dove cielo e mare, quasi
avendo scoperto il moto continuo realizzano un continuum vaporoso, nebbioso,
una specie di liquido amniotico ancestrale nel quale l'artista e noi tutti
desidereremmo ricacciarci per recuperare l'edenica felicità svenduta. E in
quest'atmosfera di acquoso lucore sferzata dal vento, l'uomo ritrova la
certezza che, finchè resterà in quel grembo, anche solo a rimirarlo, avrà la
garanzia di non morire. L'arte, perciò - l'arte di Cesare Piscopo - non come
catarsi ma come approdo ad una dimensione vitalistica e positiva del mondo.
Mario Cazzato (Introduzione alla mostra di Cesare Piscopo “C’era una volta il mare”; Galatina, Museo P. Cavoti - 2009)
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