Giuseppe Piscopo non
ha bisogno di presentazioni, è nome ampiamente noto, sia tra gli addetti ai
lavori, sia tra gli appassionati ed i collezionisti d'arte moderna. Già da
tempo le sue opere si sono imposte all'attenzione di critici e di
collezionisti, inserendosi nei grandi circuiti di divulgazione e liberandosi di
quella etichetta di provincialismo spesso affibbiata a molti artisti
incompiuti.
Pittore di preminente
vocazione naturalista e di fine sensibilità cromatica, è nella scultura che
riesce ad esprimere appieno la sua straordinaria capacità di introduzione
psicologica, volta alla ricerca del più intimo segreto che si possa nascondere
tra le pieghe dell'animo umano. E il frutto di questo suo indagare, scavare,
mettere a nudo l'essenza più vera e profonda dell'uomo si concretizza in forme
plastiche di una essenzialità e di una incisività sorprendenti. Ma attenzione!
Piscopo non è un artista naif, la sua apparente "ingenuità" e la sua
accentuata tendenza alla semplificazione ed alla sintesi espressive non sono
affatto spontanee, istintive, bensì il risultato di un lungo e sofferto travaglio
interiore, alimentato da un background culturale
di notevole spessore.
Ma per meglio
comprendere la valenza e il significato della sua opera è utile abbassare la
maschera dell'artista per scoprire com'è l'uomo che si cela dietro. Il
"professore", come un pò tutti nella sua Parabita lo chiamano con
deferente affetto, è persona estroversa, naturalmente disposta a cogliere gli
aspetti migliori della vita, dal tratto affabile e dall'umanità che traspira da
ogni poro della pelle, ma dalla forte personalità. La naturale curiosità
intellettuale, la vasta cultura umanistica e scientifica, la multiforme
versatilità e l'inesauribile vitalità gli hanno consentito molteplici
esperienze di vita e di lavoro che lo hanno portato, di volta in volta, ad
essere insegnante, preside, naturalista, speleologo ed archeologo dilettante,
intenditore e collezionista antiquario...e chissà quante altre cose ancora.
Questo, dunque, il
terreno dove affondano le radici della sua arte ed è a questo ricchissimo
patrimonio culturale ed umano che egli attinge a piene mani per trarre
motivazioni e spunti per le sue creazioni, spaziando a tutto campo
dall'archeologia alla storia contemporanea, dall'antropologia all'etnografia,
alla storia dell'arte. Non senza però il filtro della sua originalissima
interpretazione e rielaborazione. Frequenti ed evidentissimi, infatti, sono i
riferimenti all'arte primitiva ( per esempio alle famose Veneri di
Parabita, due statuette paleolitiche che rappresentano la figura femminile con
pancia e glutei esageratamente evidenziati, simboli di fertilità), al mondo
classico con i suoi rigidi canoni della bellezza ideale, ai vari movimenti
artistici che hanno caratterizzato il XIX ed il XX secolo (dall'impressionismo
all'espressionismo, dal verismo al cubismo). Ma qual'è il tema di fondo, il
filo conduttore che lega l'intera opera del Piscopo? Quale la filosofia che la
sottende e che ne costituisce l'asse portante?
E' senz'altro l'uomo
e la sua centralità cosmica. L'uomo, eterno protagonista nel bene e nel male,
sempre e comunque l'uomo, con le sue contraddizioni, le sue speranze, le sue
illusioni, le sue certezze, i suoi dubbi, le sue angosce, la sua fragilità, la
sua crudeltà, la sua tenerezza. L'uomo, capace di raggiungere le vette più alte
della generosità e dell'amore, per poi sprofondare negli abissi più profondi
dell'egoismo e dell'odio. Si spiega così la tendenza piuttosto marcata, a
tratti esasperata e quasi ossessiva, ad approfondire e sottolineare gli
elementi psicologici della personalità: visi spenti dalla disperazione o
illuminati dall'amore, corpi esacerbati dalla sofferenza o addolciti dalla
sensualità; e dietro ogni figura, dietro ogni personaggio si percepisce netta
tutta la spiritualità dell’artista che con occhio ora sornione ed ironico, ora
appassionato e pietoso, ora complice e intrigante, ora compiaciuto ed
indulgente, testimonia e partecipa in una altalena di sensazioni, di stati d’animo
e di atteggiamenti, dosati con sapiente equilibrio. E, come leitmotiv, una malinconia di fondo,
discreta, appena accennata, dolcemente adagiata come coltre leggera,
impalpabile, ad avviluppare tutto e tutti di una rarefatta atmosfera di
struggente languidità. Nessun manierismo, beninteso, nessuna leziosità, perché le
terrecotte del Piscopo si contraddistinguono per l’estremo rigore formale che
nulla concede alla captatio benevolentiae,
agli accorgimenti, cioè, posti in essere nell’intento di impressionare e
sedurre il pubblico; talchè risultano prive di ogni ammiccamento, di ogni affettazione,
di ogni ridondanza, di tutto ciò, insomma, che non è essenziale e funzionale
alla scarna sintassi espressiva adottata, di facile ed immediata leggibilità. E
già, perché al nostro riesce tutto con semplicità e naturalezza, non gli
succede mai di scadere nella retorica o di andare al di sopra delle righe, con
quella misurata pacatezza o quell’imperturbabile serenità, in una parola, con
quell’aplomb da perfetto gentiluomo
che gli è proprio, temperato, però, dal sangue caliente che scorre nelle sue vene e dalle emozioni forti che solo
la gente del Sud sa provare e comunicare.
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