Nel corso di una
recente visita al laboratorio-galleria di Giuseppe Piscopo, ho avuto modo di
scambiare con lui quattro chiacchiere, così come si fa tra amici. Più che di un’intervista
vera e propria, quindi, si è trattato di una conversazione informale,
spontanea, senza domande predisposte e senza risposte meditate. Eccone il
testo.
D. Il Piscopo scultore utilizza i materiali più
disparati, dal tufo al cemento, dal legno alla carta…, persino pezzi di telaio,
ma l’argilla è di gran lunga il più utilizzato. C’è un motivo?
R. Io amo tutte le
arti, per almeno venti autentici motivi.
Amo la creta di più
tra tutti i materiali che da oltre mezzo secolo cerco di usare per intimo e
indispensabile bisogno di esternare i miei sentimenti, gioie e dolori. Ma,
soprattutto, dicevo, ho amato e amo la creta. Che gran godimento affondare le
mani in un certo modo nella creta molle e poi toglierle e scoprire in quelle
impronte una figura, un viso pieno di sofferenza o di felicità, il corpo di una
donna, due, tre…e dare sfogo alla fantasia e all’immaginazione! Può darsi che,
pur con i successivi interventi, non venga fuori nulla di buono, ma può anche
darsi che, da una di quelle impronte, nasca lo spunto, l’idea per la
realizzazione di una determinata figura, oppure (e perché no?) di un’opera
astratta.
D. Tuttavia, la sua resta una scultura eminentemente
figurativa, con esclusione pressocchè totale di ogni elemento astratto o
informale. Perché questa scelta di campo?
R. In verità, pur
riconoscendo che certe forme astratte mi suggestionano non poco, rimango
convinto che la scultura più valida è e rimarrà sempre quella figurativa. Il
mio maggiore interesse, quindi, è rivolto soprattutto alla figura umana e in
particolare a quella femminile: mi sembra che in una figura femminile si possa
leggere molto del mondo e della vita, dalle oscure, misteriose germinazioni,
alla dolcezza, al dolore, al piacere, alla realtà della vita stessa.
D. Dove trova gli spunti per l’ispirazione?
R. A volte trovo
fonte d’ispirazione nell’angoscia della lotta per sopravvivere, nel dramma che
talvolta si cela sotto i più dolci nomi, come cuore, maternità, nelle diverse
verità dell’oppressore e dell’oppresso e financo nella patecità di certe
finzioni che l’uomo si concede. La scultura allora diventa per me un fatto
vivo, legato ad un contenuto in rapporto ai valori umani, alla realtà del nostro
tempo.
D. Molte delle sue opere hanno qualcosa d’incompiuto o
addirittura risultano appena abbozzate, quasi a voler mettere in secondo piano
gli elementi formali, stilistici. Perché?
R. Non amo la forma
per la forma, bensì per il suo contenuto: nei ritratti, in special modo, più
che la somiglianza, cerco di cogliere qualche particolare fisionomico che metta
in risalto la personalità del soggetto, tenendo sempre presente che sia i
ritratti che le figure, in qualsiasi modo o mezzo concepiti, non possono essere
privi di umanità, semplicità e naturalezza, in una parola, della poesia che
caratterizza la vera opera d’arte.
D. Se dovesse riassumere la sua arte in una sola frase,
come la definirebbe?
R. Sono convinto che
i migliori pensieri sull’arte di un artista sono sempre le sue stesse opere.
D. Io penso che questo slogan potrebbe calzarle a
pennello: “ascoltare l’anima e dar voce ai sentimenti”. Lo ritiene azzeccato?
R. Sì, perché l’arte
non può che essere lo specchio dell’anima e tutte le mie opere sono sentimenti,
emozioni, stati d’animo, che si materializzano e prendono forma.
Alfredo Ligori (tratto dal catalogo Giuseppe Piscopo. XXII Mostra dell’Artigianato della Terracotta;
Cutrofiano 7-25 agosto 1994)
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