Mio padre è molto dispiaciuto di non essere presente; è abituato ad uscire raramente da casa e soltanto per necessità, ma desidera ringraziare vivamente tutti gli organizzatori. In particolare: l’Università Popolare del Salento, il prof. Giancarlo Vallone, il prof. Virgilio e tutti i presenti. Quanto a me proverò in quest’occasione ad abbozzare un rapido ritratto di Giuseppe Piscopo artista. Incominciamo col dire che egli è un autodidatta – nel senso che non ha frequentato scuole d’arte o accademie, ma si è formato ed aggiornato in modo autonomo, mosso da autentica passione per l’arte. Sicuramente, le suggestioni provenienti dalle opere di alcuni artisti del panorama nazionale ed internazionale e la frequenza degli studi di altri importanti artisti salentini come: Martinez, Ferraro, Gabrieli, Mandorrino, Coronese, saranno state determinanti per la sua formazione artistica e gli ulteriori sviluppi, ma egli era ed è sempre accompagnato, direi sospinto, da un autentico sentimento della natura. Giuseppe Piscopo ha quasi 97 anni; ha iniziato a fare arte da ragazzo, come egli stesso ha raccontato, ed ha smesso solo pochi anni fa per un lieve tremore alle mani. I temi da lui trattati, in pittura come nella scultura e nella ceramica, sono stati: la figura umana e il ritratto, soprattutto femminile; il paesaggio - in generale la campagna e la costa del Salento - gli animali e la natura morta, i temi sociali e il soggetto sacro. Da sempre e con convinzione artista figurativo, egli ha esperito quasi ogni tipo di materiale: dalla pietra al cemento, al gesso, all’argilla, al legno, alla cartapesta. Stimolato da varie iniziative non ha mai trascurato l’attività artistica, anche se talvolta isolata e nascosta. Ha partecipato alla 7 Quadriennale d’Arte di Roma e ad altre mostre di carattere nazionale. Ecco la presentazione che di lui ne fa Alfredo Ligori: “Pittore di preminente vocazione naturalista e di fine sensibilità cromatica, è nella scultura che riesce ad esprimere appieno la sua straordinaria capacità di introduzione psicologica, volta alla ricerca del più intimo segreto che si possa nascondere tra le pieghe dell’animo umano. E il frutto di questo suo indagare, scavare, mettere a nudo l’essenza più vera e profonda dell’uomo si concretizza in forme plastiche di una essenzialità e di una incisività sorprendenti. Visi spenti dalla disperazione o illuminati dall’amore, corpi esacerbati dalla sofferenza o addolciti dalla sensualità; e dietro ogni figura, dietro ogni personaggio si percepisce netta tutta la spiritualità dell’artista che con occhio ora sornione ed ironico, ora appassionato e pietoso, ora complice e intrigante, testimonia e partecipa in una altalena di sensazioni, di stati d’animo, di atteggiamenti dosati con sapiente equilibrio.”
Impossibile ricordare in pochi minuti un’attività
lunghissima dove trovano spazio e tempo disegni, dipinti, sculture e ceramiche:
una produzione varia e certamente rilevante, di cui vogliamo ripercorrere molto
velocemente ed in successione cronologica le tappe più significative, almeno
per quanto riguarda la scultura. Partendo dagli anni ’50, si nota un richiamo
alla cultura arcaica, in cui viene dato maggior risalto alla verticalità ed alla
immobilità delle figure; si passa, negli anni ‘60, ad un realismo quasi
classicheggiante, tendente ad un equilibrato rapporto tra forma ed espressione.
Nel ventennio successivo, fino agli anni ’80, fa la sua comparsa una nuova fase
strutturale, improntata su un giocoso e surreale assemblaggio di materiale
povero. Si arriva infine agli anni ’90, cioè alla produzione più recente, caratterizzata
da un certo espressionismo in cui la materia stessa, modellata a grumi e quasi
informe, si fa allusiva di una sofferta condizione umana. Ma, tralasciamo
volutamente molte opere di notevole levatura, come una lunga
serie di maternità in terracotta, la cui plastica esuberanza delle forme evoca le
famose Veneri di Parabita, e soffermiamoci brevemente sulla
produzione che, secondo alcuni critici, rappresenta l’apice dell’attività scultorea di
Giuseppe Piscopo: quella lignea del periodo 1970/1980. In questa
esperienza estetica convergente in un realismo simbolico ed essenziale sono riuniti
alcuni aspetti fondamentali della sua ricca personalità: dal cultore dell’arte
antica al collezionista, dal conoscitore dell’anatomia umana e animale al colto
pittore e scultore naturalista. A tal proposito, Giancarlo Vallone scrive in Giuseppe Piscopo, sculture tra realtà e
simbolo, Carra 1996: “Nuova e diversa, profondamente, è l’esperienza
“costruttivista”, datata dal 1969 al 1980. Le molte statue lignee, tutte a
grandezza naturale o poco più, affiorano da pezzi di telaio, residui di mobili
e scarti di rigattiere e il potere figurativo evocato è giocato interamente sul
filo della fantasia. Fantasia di scultore, certo, ma anche cromatica, perché i
legni antichi di telaio sono in olivo, che nel tempo acquista un tono verde
scuro o azzurrognolo, ritoccato sapientemente a modulare i volumi. Alcuni temi
sono ricorrenti: gli amanti, “Madre e figlia”, “Padre e figlio”, “Il chitarrista”.
Le sagome sono tutte enfatizzate in altezza: e questo svela il fondo
“poietico”, per dir così, di questo Piscopo, perché è nella scelta
dell’altezza, come già ho detto, che si dimensiona la sua ironia. Sottile
questa, giocata sul fondo dell’anatomia, con costante manifestazione sessuata,
con voluta caratterizzazione dei volti. Ma è soprattutto in tre statue, che l’ironia
e una certa maggior ispirazione descrittiva si saldano in esiti più che felici
d’assemblage. Il Guerriero, di lungo
torso e intensa frammentazione cromatica, quasi rievoca antichi precedenti
italici. Il Ciclista, realizzato con
pochissimi mezzi, esprime suggestivamente un’eccezionale carica dinamica.
Infine il Don Chisciotte, del 1975, che coglie nella figura dell’”eroe” quasi
abbandonata sul cavallo, l’essenza della sua matrice picaresca; mentre la
criniera dell’animale, ottenuta con una rastrelliera di telaio, ischeletrisce
l’insieme e lo consegna al suo destino di fame e di sventura: è un pezzo, come
già scrissi, e ripeto, che dovrebbe iscriversi, a mio avviso, nella storia
della fortuna figurativa del Chisciotte”.
Concludo citando un testo autobiografico di Giuseppe Piscopo, scritto nel
1996:
“Queste brevi note non vogliono assolutamente proporre
un’autocelebrazione. Neppure desidero avventurarmi in dotte dissertazioni o
personali riflessioni sul significato e sul valore dell’arte, non essendo né un
critico né un letterato, ma soltanto uno “sperimentatore” che passo dopo passo,
tentativo dopo tentativo, è pervenuto ad una personale e, credo, originale
concezione del “fare” artistico. Il mio scopo è soprattutto quello di far
conoscere ali’osservatore più attento quali sono gli stati d’animo, i
sentimenti, le emozioni che tento di trasfondere nelle mie “creature” e quali i
messaggi che affido loro. Perché ogni mia opera nasce da un prorompente,
insopprimibile bisogno interiore di dare forma a un’idea, ad una sensazione. Tant’è
che non sempre le mie mani si muovono obbedendo ad un ben definito ed
organizzato piano di lavoro; spesso le sento agire come appartenessero ad
un’altra entità, ad un altro “io” che vive ed opera all’interno di me stesso,
in sintonia con le forme possibili riposte nella materia. Spesso anzi è
l’ispirazione del momento a suggerirmi il soggetto da rappresentare, e ad
imporre la materia da adoperare, che può essere il tufo, il cemento, la carta, la
tela, il legno e le più disparate cianfrusaglie da rigattiere. Fra tutte però,
l’argilla resta per me la materia preferita. Forse perché nel mio inconscio
evoca ancestrali suggestioni legate all’evento della creazione, o perché tale
materiale si piega docilmente alle mie estrose fantasie, o perché nel lavorarlo
provo una sensazione di voluttuosa sensualità, o chissà per quali altre
ragioni. Tuttavia, secondo me, per dar vita ad un’opera d’arte non basta avere
un’idea e padroneggiare la tecnica, che pure è essenziale; ci vuole dell’altro.
Ci vuole l’anima, e per anima intendo la naturale disposizione a percepire e
interpretare il mondo esterno attraverso il filtro della propria cultura, della
propria sensibilità, del proprio vissuto. E non ho dubbi: in tutto quello che
creo c’è un po’ della mia formazione umanistica, un po’ della mia vocazione
naturalistica, un po’ delle mie esperienze speleologiche e archeologiche, molto
delle vicende personali che hanno scandito e segnato la mia esistenza. Essendo
la scultura il mezzo espressivo che prediligo, è ad essa che riservo le
maggiori attenzioni, anche se la pittura mi dà un senso di serenità, acquieta,
ed anzi distende quel furore creativo che invece mi assale quando mi accingo a
modellare. Per me la scultura è tensione emotiva, ansia, inquietudine, mentre
la pittura è rassicurante tranquillità, sereno abbandono, idilliaca simbiosi
con il mondo della natura – paesaggi, fiori, nature morte e figure umane. A
volte mi chiedo se esista una qualche corrente artistica alla quale io possa essere
assimilato. E mi rispondo: a tutte e a nessuna. Io non ho seguito, né mai
seguirò alcuna ideologia; amo l’arte per l’arte. Se proprio dovessi darmi
un’etichetta, mi definirei un “figurativo barocco”. Figurativo perché è
costante in me il riferimento alle forme della realtà esterna. Barocco perché
anch’io mi riconosco in un certo qual modo in quel movimento, che vide fra Cinque e Seicento moltissimi artisti
praticare vie nuove e dare libero sfogo all’estro e alla fantasia. Pertanto, se
per barocco s’intende soggettivismo dell’espressione, ritorno alla natura come
unica fonte d’ispirazione, introspezione psicologica alla scoperta dell’animo
umano, ebbene sì, io mi sento barocco fin nel profondo di me stesso. E poi,
come non sentirsi barocco in una terra in cui ogni pietra, dalle chiese ai
palazzi, è una palpitante testimonianza di quell’arte? Il barocco è intorno a
te e inevitabilmente finisce per entrarti nelle vene. Quanto ai temi trattati, in
special modo nella scultura, il motivo ricorrente è la figura umana; la donna
in particolare, perché in lei si può cogliere il significato più profondo e
autentico, l’essenza stessa della vita. La donna quindi; la donna biologica, la
donna fattrice – i tratti anatomici volutamente esagerati di molte mie figure
femminili evocano ed esaltano il concetto di fecondità. Tuttavia non è soltanto
l’universo femminile ad occupare i miei pensieri; mi appassionano anche altri
temi, come il dramma della guerra e il flagello della fame nel mondo, con tutte
le conseguenze di crudeltà e di degradazione che umiliano la dignità
dell’essere umano, fino alla sua totale negazione. In ogni caso, quali che
siano i miei soggetti: donne, vecchi o bambini, il messaggio che cerco di
comunicare è sempre un messaggio di speranza nell’intelligenza dell’uomo, nella
sua capacità di riscattarsi dal male e di godere a pieno dei pochi momenti di
felicità che la vita gli offre. Per me felicità è dare l’ultimo ritocco ad un
dipinto o ad una scultura e sentirmi rasserenato, appagato. Purtroppo è solo un
attimo perché, subito dopo, incominciano i dubbi, le incertezze, gli interrogativi.
In questo intimo travaglio, in questo continuo bisogno di mettermi in
discussione, c’è già il germe della prossima opera che, nelle intenzioni, dovrà
essere la più riuscita di tutte. Ma so già che non sarà così perché penserò ad
un’altra opera e ad un’altra ancora, in una continua , affannosa e purtroppo
vana ricerca della perfezione”.
Cesare Piscopo (in occasione di “Omaggio a Giuseppe Piscopo” 25/05/2012 – Università Popolare del Salento; sede di Galatina).